Scappate!

Cari ragazzi e ragazze, ma cosa aspettate a lasciare Guardia? Cosa vi trattiene se qui la vita è ormai impossibile, il futuro non c’è, il paese è morto, opprime, impedisce di vivere?

Questo paese è schiacciato dalla noia e dal suo passato, non crea, non intraprende, è sotto il tallone della “Cupola” e del clientelismo. Vivete male, vedete che chi fugge poi sta meglio, e allora cosa aspettate, cosa vi frena dal far seguire alle parole i fatti, cosa vi fa ancora esitare? Vi trattengono i vostri genitori, vi trattiene la paura perché temete che il tranquillo malessere di oggi altrove volga in angosciosa incertezza; vi trattiene il vizio delle abitudini, il piacere di lamentarvi in coro e in solitudine, o vi frena la pizza con gli amici, la parentela, le chiacchiere e le passeggiate domenicali lungo il corso, il peso del passato, o che? Dite la verità: quante volte l’avete detto pure voi, l’avete sussurrato o gridato, l’avete pensato o figurato, che volete andarvene da questo paese? Nei luoghi di ritrovo dei giovani c’è ormai una mimica della fuga e degli annunci. Ma quanto ci fa schifo Guardia, o per i più rispettosi, questa Guardia, con il sottinteso che ce ne sia stata un’altra più degna di esistere. Ci fa schifo assai questa Guardia ed è l’unica rabbia che ci resta. L’unica da cui ripartire, se sarà il caso…

Cari ragazzi e ragazze di Guardia, a sentirvi avete ormai un solo desiderio: fuggire. Lasciare baracca e burattini. Fuggire dal brutto, dai capataz, dalla malapolitica. Sognate la svolta, ma personale. Sognate di cambiare verso e passo; ma voi, mica Guardia. Uscite da questa chiavica di paese che molti (purtroppo) ancora ritengono unico e irreversibile, smettetela di consegnarvi anima e corpo a questa morte rateizzata che chiamate comunità, non siete automi (almeno voi), sparatevi più futuro e più passato, affacciatevi su altri mondi. Svegliatevi! Toccate terra e mirate al cielo. In un paese così, io non ci vorrei vivere. Da un paese così me ne vorrei andare di nuovo. Io che questo paese ce l’ho nel sangue, nell’anima, sulla lingua e sulle dita. Qui ho costruito, anche se nessuno te ne rende merito, qui ho generato, ho vissuto, nonostante tutto. Allora penso a come andarmene restando. Ma il paese viene a riprendermi e mi ricaccia dentro il suo vomito.

Che schifo, cari ragazzi e ragazze di Guardia, vivere in un paese così. L’ho detto e l’ho pensato anch’io e uso il passato prossimo per una forma di rispetto, perché in verità ci penso ancora. Siamo così ad agio nel nostro disagio, guazziamo così bene nel malpaese che la difficoltà di andarcene e la volontà di farlo costituisce il principale alibi per vivere una comunità come Guardia come un giogo e per sottrarci a ogni dovere. E su quel disagio costruiamo il diritto di non amare il nostro paese e di denigrarlo pubblicamente, di non sentirci guardiesi come i nostri padri ma come guardiesi riluttanti, in transito, con una specie d’obbligo di catene a bordo in segno di schiavitù. La guardiesità come catena.

So che non siamo più abituati a considerarci una comunità e a rivolgerci a un noi che stenta ormai a uscire dall’io, dal tu e dagli altri. Noi sono sempre loro, gli altri; il nostro noi conta fino a due, tre o poco più, o allude a provvisorie aggregazioni o si riferisce a unioni di interesse, cosca e categoria. Il noi è un target, non una comunità, al più un consorzio, ma nient’altro. So che chiamarci guardiesi è alludere a un involucro stantio, di proverbi, luoghi comuni e imprecazioni. Dire guardiesi è dire troppo e troppo poco per definirci, troppo generica come appartenenza, troppo specifica come genere. Al più funziona nei discorsi da bar, nelle barzellette, quando la chiave del vituperio cede all’ironia e al sarcasmo.

Perciò, cari ragazzi e ragazze di Guardia, ora che questo paese è in manutenzione dagli “eroi” del cambiamento, è il momento giusto per guardarci in faccia, negli occhi e allo specchio.

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