Serve una svolta. Risvegliare Guardia. Un paese di quasi cinquemila anime che muore, in silenzio, discretamente, senza dare nell’occhio, con rassegnazione. In punta di piedi, nel fragore di un mondo dove ogni cosa si rincorre, lascia traccia, si specchia in se stesso, nella sua vanità.
Lo ricordo a chi oggi può decidere: checché ne dica chi ha deciso prima di voi, il vostro, il nostro, è un paese – o un borgo come li chiamano oggi -, invisibile. Oggi tocca a voi renderlo visibile. Il fenomeno ha un nome che ha l’amaro di una sentenza inappellabile: spopolamento. Certo, muoiono anche i paesi nell’Italia di oggi, narcisista e pigra, presuntuosa e leggera, incapace di scavare dentro le proprie radici, nel passato. Nei presepi dell’Appennino del Centro e del Sud Italia, la vita evapora lenta, senza quasi farsene accorgere. All’indomani del 1861, erano centri con più abitanti di oggi. I nuovi mondi che avevano fame di braccia e offrivano opportunità, hanno inferto il primo colpo. Poi, gli ultimi trent’anni hanno fatto il resto. Oggi, più che mai, occorre rianimare Guardia. Cambiare tutto radicalmente, tornare al punto di partenza dopo la rotazione. Fare un salto indietro. Ricostruire una comunità a chilometro zero, riprendere i contatti con la vita reale, la natura, le persone. Non è più il tempo di passerelle autocelebrative. Non servono a nulla. C’è voluta la pandemia per scoprire un paese dormiente, una comunità assopita e gli scompensi che tutto ciò comporta. Un paese di quasi cinquemila anime non può morire, in silenzio, quasi con rassegnazione. È tempo di iniziare il cammino inverso. Perché ai paesi invisibili come Guardia non ci fa caso nessuno più. Si risveglia addirittura la provincia, si rianima persino il sud, e a Guardia invece si continua ad andare via lontano, a giocarsi sul tavolino della storia, la sorte della propria esistenza. E solo chi lo lascia si porta nel cuore una ferita dolorosa e la smania di ritrovare, chi sa dove, ancora ricordi, sapori, suoni, parole, profumi, colori che ricordano quelli che si sono lasciati alle spalle. Chi resta, di solito è chiuso nel suo clan o nella sua solitudine. Oggi più di ieri è tempo di iniziare il cammino inverso. Serve una svolta. Serve una visione. Serve condivisione. Servono progetti. Serve concretezza. Priorità. Perché quello che un tempo prosperava adesso cala; lavoro, economia, case in vendita o in affitto, ecc. Un vecchio e triste copione già visto altrove: chiude prima una attività, poi la scuola, poi gli uffici giudiziari, sanitari, poi le Poste, le banche. Poi l’edicola, il negozio di generi alimentari, il benzinaio, il farmacista, la caserma dei carabinieri. Non nascono più bambini e anche chi è partito non ci torna con puntualità. Un po’ perché, abbandonata o svenduta la casa dei propri genitori, non saprebbe come viverci; un po’ perché il passato è un bagaglio ingombrante e si fa fatica a trascinarlo se bisogna pensare al futuro. Così, non in un giorno, ma come in una agonia, Guardia si spegne. Il suo centro storico è destinato a diventare cartolina spettrale, un posto per fantasmi e nostalgici. Come una sorgente che all’improvviso si secca. Le stradine da tempo abbandonate diventano mute, l’erba colora ogni spazio e muro. Poi cala il silenzio. Il silenzio dei vinti. Di chi si porta dietro l’angoscia e il peso di aver contribuito a smarrirne le radici. E le ali spuntate, le buone intenzioni delle amministrazioni che si susseguono, per forza e necessità, da sole non bastano a dare tregua.
Di Guardia, del paese invisibile purtroppo si parla solo ogni cinque anni: quando i numeri ricordano a tutti che Guardia ha perso figli e identità. Quando sono solo statistica. Una delle tante. Inutile e atroce. Come se i fantasmi della Guardia che fu si potessero davvero contare. “Ma tutto passa e tutto se ne va”, dice la vecchia canzone dedicata al distacco dal paese adagiato sulla collina. Tutto passa. Tutto. Tranne questo magone che non accenna ad andarsene.