Il pollaio dei talk show

(Raffaele Pengue) – Più vanno in tv e più li detesto. Non li sopporto più. Non solo quelli che la fanno, ma soprattutto quelli che ci vanno spesso. In primis i politici, poi gli ospiti fissi, intellettuali inclusi, influencer, ospiti a contratto, giornalisti e presunti tali. Non so se capita anche a voi ma da tempo ormai mi accade di vedere un talk show – uno di quei programmi, per così dire di approfondimento, che costano poco e rendono molto (in pubblicità) – e di trovarlo uguale a quello del giorno precedente, della settimana precedente, del mese precedente. Non solo lo schema dei servizi è identico, il minuetto e i personaggi pure, ma anche le cose che dicono, come lo dicono, mi sembrano perfettamente uguali, già sentite i giorni precedenti. Sarà l’estate che non è ancora cominciata e già sta finendo e tutti hanno voglia di andare alle elezioni, ma oggi in questi programmi ci sono solo esistenze virtuali, ormai estinte da ere geologiche precedenti, che appaiono con puntualità nel teatrino televisivo. De Mita e Mastella, Cirino Pomicino e D’Alema, Prodi e persino Martelli, per non dire quelli antecedenti. Cartoni inanimati. Messi lì giusto per fare un po’ d’ammuina (almeno fino a qualche settimana fa avevamo i virologi da duemila euro per ogni dieci minuti di intervento). E che dire dei novizi della politica, le comparse di destra-centro-sinistra, che si preparano la filastrocca per andare in video e guadagnarsi il quarto di minuto di celebrità, piazzati come ripetitori davanti alle telecamere. Replicanti che ripetono la solfa per far contento il capo-partito. Come in una serie a puntate, vengono proposti per un periodo limitato di tempo. Ripetono sempre la stessa musica e le stesse parole; appena li vedi apparire da un canale all’altro, sai già cosa dicono. È come se fosse sovrimpresso sulla loro fronte un timbro del tipo: visto. Sai già ad esempio cosa diranno i governisti Pd e Cinque Stelle, ministri e sottosegretari, e sai già l’enfasi che daranno ai provvedimenti del governo; ma sai pure per filo e per segno cosa diranno le opposizioni. Se la prenderanno con quegli incapaci al governo e invocheranno il loro mantra, “giù le tasse, il governo litiga su tutto ma restano insieme per spartirsi le poltrone mentre il paese precipita e la gente non arriva a fine mese”. La quantità di volte che l’hanno ripetuto in questi mesi è impressionante. E lo dicono sempre allo stesso modo, tra una mascherina tricolore e un sorriso amaro con fossette d’accompagnamento.

La politica in tv è ormai un fotogramma fisso, che si ripete all’infinito. È un fermo immagine. Una paralisi. Ha il colpo della strega, è rimasta lì, bloccata in posizione curva. Mi chiedo allora che senso abbia seguire un dibattito, un talk, un tg, tanto vale andare su Google. Il format è lo stesso, superato, col suo repertorio di gag e di pareri prestampati. A mio parere questi programmi (soprattutto su La7, una tv ridotta a edicola votiva) sono diventati ormai la molla più radicale che spinge gli italiani all’antipolitica e all’astensione dal voto, sempre e comunque, a prescindere.

Ma il telegenocidio non risparmia nemmeno gli intellettuali, gli opinionisti, i conduttori televisivi, personaggi oracolari che si ostinano a definirsi giornalisti, che hanno definitivamente perso la loro aura da quando sono scesi nel pollaio dei talk show. L’avversione degli italiani non si limita infatti ai politici ma si estende anche a loro, come a chi detiene il potere senza essere politico. Strano che nessuno ha ancora capito che l’indice di notorietà televisiva è inversamente proporzionale all’indice di gradimento. Più ci vai meno piaci.

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