C’era un tempo – negli anni ’70 – di giornali, riviste, carta e cartoni, intere balle legate con la corda e portate al magazzino di riciclo, piccole imprese non ancora tiranneggiate dal fisco. Erano anni di crisi petrolifera, di blocco del traffico, di domeniche a piedi e di estati in bicicletta. La chiamavano austerità e pochi si interrogavano su come smaltire i rifiuti, nessuno parlava di differenziata. Il problema, allora, non era separare l’umido dal secco, era risparmiare. Il vetro e la carta erano considerati come una risorsa da non gettare per strada, da non disperdere nell’ambiente. Con il giornale ci si incartava il pesce, nei paesi c’era ancora il calzolaio, un posto dove passare prima di buttare definitivamente le scarpe. Gli anni ’70, un tempo di bottiglie vuote riportate al bar in cambio di qualche spicciolo: birre, gassose, chinotti, aranciate, qualche Coca-Cola da consumare insieme agli amici. Un tempo di fogli affissi all’entrata del piccolo supermarket sotto casa “tu mi riporti indietro la bottiglia vuota e non paghi il contenitore” e io la riuso. Il vuoto a perdere come un patto di mercato tra il consumatore e il produttore. Ci guadagnavano tutti e due e sui grandi numeri magari questo scambio faceva pure la differenza. Un’economia a misura d’uomo e dal retrogusto ancora antico. Niente di virtuale, insomma, ma a portata di mano. La start up del riciclo. Insomma, si riciclava per un ricordo di povertà. Non per odio al consumismo, non per ideologia, ma per quel saggio proverbio per cui “si fa di necessità virtù”. Oggi i numeri dicono che si è tornati al vuoto a perdere. Non per povertà ma per troppo consumo. Non per libero scambio ma per suggerimento di legge. Non è esattamente la stessa cosa. È un po’ una sconfitta delle nostre virtù individuali.