Non mi piacciono i castelli. Queste pietre annerite dal tempo, questa ipocrisia, questa grandezza che dovrebbe resistere al tempo e magari lo farà. Non importa il motivo. Sono soltanto uno dei tanti cittadini di una comunità con al centro proprio un castello, troppo pigro per scrivere qualcosa di grande, troppo mediocre, forse. Eppure ho scritto, già da qualche anno, quasi tutti i giorni. Ho scritto non di castelli, ma di un luogo abbandonato dagli uomini. Ho scritto abbastanza da non farmi amare. Non da tutti, sarebbe eccessivo, ma certamente da lui (l’egolatra) e dagli uomini (e donne) che gli sono vicino, da chi sussurra e non favella, da chi decide le piccole sorti e le piccole fortune delle persone di questa comunità con al centro proprio un castello: oggi illuminato, di rosso. Come il rosso destinato all’imperatore e alla ristretta cerchia della sua famiglia, essendo il colore rosso porpora associato alla dignità imperiale. A lui, il Cesare originario, il despota incarnato. Senza averne lo spessore. Perché è soltanto immagine. È soltanto proiezione. È soltanto ambizione. In quelli come lui il potere e l’uomo non vanno mai in collisione e non si disperdono a vicenda. A lui, all’egolatra che predomina su tutto. La res publica è lui. La storia è lui. L’epica è lui. L’origine di questo paese è lui. Quello che fa, è a uso e consumo del mito di lui. La morale è lui. Ma lui non ha morale. In nome della sua ambizione ha messo al bando la libertà di ognuno di noi. A lui, il Cesare, dicevo. No, non lo chiamo cittadino. Neppure primo. Neppure secondo. Neppure presidente. Lo chiamo egolatra, perché quello è, ingannando i suoi concittadini e quei quattro coglioni dei suoi sostenitori. A lui e a quelli che in questi anni hanno ucciso la Morale in nome del cambiamento per ritrovarsi un Cesare. Bella impresa. Certo, ora dite che lui ha dato tanto a questo paese, una prospettiva. Scusate se qui io vedo solo un deserto. È questa la prospettiva che voi concittadini avete voluto e invocato. È vostra. Non sarò io a rimpiangerla, come non rimpiango la mia guerra personale. Non rimpiango il passato, perché troppi di voi in fondo si è visto non avevano altra ambizione che arrivare a quello che sono. Lui è la sintesi di tutti voi, di qualsiasi fazione, di quelli che volevano che “nulla cambiasse”, e di quelli che promettevano di cambiare tutto, non avendo in mano nulla. Perché la concordia teorizzata in questi anni dall’egolatra è solo un esercizio retorico, o l’illusione di un provinciale che crede nel potere della parola, ma morirà con la lingua tagliata, vittima di una comunità stanca delle sue fantasie e del silenzio complice dei suoi antagonisti. E saranno le nostre idi di marzo. Allora davanti a questo castello rosso io vedo solo un sarcofago, con all’interno il cadavere di una comunità, di un altro anno… e io sarò qui a raccontarvelo.