Nella mia comunità si è diffusa, soprattutto nel corso della campagna elettorale appena conclusa, la pericolosa convinzione che l’unica dote richiesta ad un amministratore sia l’onestà, come se bastasse questo metro di giudizio a renderlo utile alla sua funzione. Secondo me il punto semmai è chiedersi se davvero basti l’onestà di un amministratore a renderci la vita pubblica migliore o quanto meno più tollerabile.
Piuttosto che ad una presunta moralità, che pure è necessaria, preferisco un amministratore capace, ossia che faccia bene agli altri, alla comunità che amministra, anziché uno stupido. Perché, in questa comunità ci siamo e ci viviamo e non ne possiamo uscire, al massimo possiamo emigrare, ma volenti o nolenti l’egoismo sociale ci unisce per ottenere da una società organizzata il soddisfacimento dei nostri bisogni, dei nostri interessi come non potremmo mai raggiungerlo da soli. Non ci vuole molto, neppure un fine statista, basta un po’ di logica e di senso pratico.
Ma siamo sicuri che un amministratore idiota non mi danneggi anche se onesto? Specialmente se è un amministratore esperto solo nel parlare alla pancia, alle viscere e ai genitali dei suoi concittadini meno alfabetizzati. Una amministratore che privilegia il piccolo cabotaggio e interventi superficiali e clientelari. Io non ne posso più di vivere in un luogo amministrato da idioti, senza il minimo buon senso. Amministrato da chi detesta il controllo di legalità e trasparenza. Detesta il confronto. Detesta la dialettica. E se la contesa si fa rovente, i problemi esplodono, è lo specialista della fuga. Che mal sopporta l’idea che ciò che amministra debba reggersi sull’equilibrio maggioranza e minoranza, quando basterebbe uno solo, il suo. Che odia chi lo mette in cattiva luce. Arrogante. Narciso. Che vuole cambiare la sua comunità. In che modo lo stia facendo, giudicatelo da soli.
E allora m’incazzo e me ne frego dell’onestà, anche questa peraltro annunciata e tutta da dimostrare, se è solo un dannato amministratore incompetente per nulla adatto a governare una comunità, che tra l’altro sta solo distruggendo. Ma mi incazzo soprattutto perché nella mia comunità la vergogna si può anche misurare. 100 metri e 40 centimetri, per essere esatti, ovvero la lunghezza della pista sterrata che percorro ogni giorno. La lunghezza esatta di una specie di “percorso di guerra” non asfaltato ma lastricato di soldi pubblici. Pochi o tanti, non ha importanza. Spalmati nell’arco di tre lustri. Più di 15 anni solo per dividere la terra brulla. Un “percorso di guerra” dove in mezzo ci sta di tutto: lunghe cause legali per espropri e per controversie tra i residenti, sotterfugi, condotte dell’acqua pubblica che all’improvviso appaiono sul tracciato; caviglie slogate e automobilisti residenti che devono sentirsi dire dal meccanico, all’ennesimo costoso pezzo di ricambio, che la propria macchina non è adatta alla viabilità di quel luogo (la mia è una marca diventata famosa nel mondo grazie alle sue caratteristiche di robustezza e io la dovrei cambiare perché per uscire da casa mi servirebbe una Jeep?). Un “percorso di guerra” costretto (come molte, troppe cose in questa comunità) all’oblio e a finire nell’album degli orrori tutto nostrano, colmo di opere incompiute, strade poderali inghiottite da frane, un centro storico abbandonato a se stesso, e chi più ne ha più ne metta.
E allora m’incazzo e aspetto solo che finalmente l’occhio severo della Magistratura si posi sulla vergogna lunga 100 metri e 40 centimetri. Augurandomi, però, che sia più celere di chi la strada l’ha solo promessa.