
Caro Amedeo, ma cos’è tutto questo? Un incubo, un delirio da colica renale, la peperonata della sera prima? Che cosa siamo diventati in questo paese se l’unica cosa che riusciamo a fare, in generale, è quella di offenderci troppo facilmente; se accettiamo tutto, se a opporci non ci proviamo nemmeno e forse non riusciamo più nemmeno a replicare? Se non crediamo più a nulla e a nessuno per i troppi proclami e promesse seguiti dal nulla. Se siamo seduti su una miniera d’oro da cui non riusciamo ad estrarre nemmeno un grammo del prezioso materiale? E come potremmo farlo se abbiamo messo questa comunità nelle mani di gente che noi stessi abbiamo scelto – annichiliti e inebetiti dal nostro stesso processo di decomposizione cerebrale -, perlopiù omuncoli incapaci senza qualità, sedicenti politici che senza la politica non saprebbero nemmeno allacciarsi le scarpe o gestire una tombola di Natale; che stanno lì, al Comune, incoscienti e irresponsabili, a rimirarsi e ridere gaudenti, come se ci fosse qualcosa da ridere, incuranti della comunità che dovrebbero tutelare. L’altro cruccio che turba i sonni di molti è il drammatico appannamento di queste persone dinanzi a qualunque difficoltà. Totalmente incapaci di risolvere i problemi. Come quell’assessore che quando interpellato se ne esce sempre con la seguente frase: “Ci metto la faccia e poi… tanto non mi ricandido”. Un politico lucido si pentirebbe subito di quell’insulso “ci metto la faccia”: ai guardiesi – che per i prossimi Riti vorrebbero un paese che restituisca alle migliaia di persone che accorreranno a Guardia almeno una buona impressione – non può fregar di meno se lui va in giro con la sua faccia o con quella di un altro. Ma temiamo che non se ne renda conto: il ci metto la faccia è da sempre il mantra preferito dai nostri politici all’amatriciana, anche se non vuol dire nulla (o forse proprio per questo). D’altronde è la miglior alternativa che conoscono alla plastica facciale. Lo stesso si può dire del degrado in cui versa questo nostro paese sempre più scarrupato (cit.), crolli, menefreghismo e altre rovine “naturali” aggravate dall’incuria politica. E quando – raramente – i nostri amministratori vengono contestati (o applauditi dalla loro claque), promettono che “non accadrà più” o altre frasi fatte, salvano la faccia (e spesso pure le palle), poi spariscono dai radar.
È vero, trovare le parole in tanto lerciume non è facile per nessuno. Ma non è detto che si debba trovarle: si potrebbe anche invertire l’ordine consueto e non parlare proprio, come purtroppo avviene. E chi viene chiamato a gestire Guardia, anziché dire “farò”, parlare solo quando si è fatto. E intanto ascoltare i cittadini. Poi, se proprio si deve parlare, confessare innanzitutto i propri errori. Nel frattempo, è necessario alimentare il dibattito socio-culturale in questo paese, le controversie e la sfida tra pensieri divergenti. Di quella che un tempo era la critica al potere, l’argomentata discussione di un provvedimento, la disputa pubblica tra visioni differenti di comunità. È possibile che in questa comunità non c’è mai un provvedimento amministrativo per cui valga la pena di esprimere e articolare un giudizio, non c’è mai una tesi, un’interpretazione, una narrazione, con cui misurarsi, che vada riletta, spiegata, criticata, confutata con la cittadinanza? Oggi, in questo paese, l’accettazione o il rifiuto si fermano a priori, usando il criterio di appartenenza: la marchetta o l’opinione autoreferenziale. Non c’è nemmeno la discussione per rendere un buon servizio al cittadino, per consigliarlo, sconsigliarlo o suggerirgli una chiave diversa o tramite un confronto. Della strettoia della Portella ad esempio non parla più nessuno, basta la spiegazione fornita dall’istituzione, al massimo il post su Facebook dell’assessore o del consigliere. Di una soluzione a breve nessuno ne parla, assoluta autarchia, faidate, che sconfina nel solipsismo.
Eppure un tempo – che non è la preistoria – quando ci confrontavano con tesi realmente diverse dalle nostre, mettevano uno di fronte alle altre culture e politiche divergenti. Oggi non c’è più niente di tutto ciò e tantomeno antagonismo politico-culturale, ma c’è una soglia invalicabile che delimita la politica e la cultura di questo paese dal suo contrario. Vige l’aderenza ai pregiudizi. Il disprezzo è a priori. Nel merito delle questioni non si discute più. Paradossalmente era più vivo il confronto quando erano radicali le contrapposizioni.
Tuttavia ho la presunzione, per qualcuno l’arroganza, di credere che le mie idee, le nostre, meriterebbero invece più rispetto, anche se capisco che in tempi bui di Pensiero Unico appaiano un po’ stonate. E le cose che oggi scrivo su questo nastro trasportatore che le consegnerà all’oblio, le gridavamo lì, e poi ancora più forte nei convegni, nella piazza dove si andava non solo in occasione di manifestazioni elettorali. E in quei convegni, in quella piazza eravamo veri, presenti, reali. Ognuno col suo nome e la sua faccia, un’altra cosa che non si usa più metterci, e il rumore di quelle iniziative si levava alto, lo sentivano tutti, c’era perfino qualcuno pronto ad ascoltarlo. E allora ci sentivamo forti, parte di qualcosa a cui era bello appartenere. Si, è vero, quelle iniziative interessavano soltanto una minoranza colta, pur corposa; riguardavano un ristretto ma attento numero di cittadini. Ma anche questo è sparito nel giro di un decennio e nessuno sembra accorgersene e dolersene, come se fosse una inevitabile evoluzione, il passaggio tecnico, automatico, come quello dal telefono fisso allo smartphone. I tempi però cambiano e oggi ci siamo rintanati come mosche ognuno sotto il suo bicchiere di vetro, ognuno con il proprio inutile ronzio, convinti che sia quello giusto. E forse lo è, ma sono solo piccole voci ancora con la speranza di diventare coro. Ma quelle idee gridano ancora. Quel ronzio si sente, infastidisce chi oggi gestisce il nostro paese, troppo intento a mantenere equilibri e gestire ambiguità, a prendersi il Quid e compiere disastri indisturbato.
Bei tempi, caro Amedeo, quando eravamo un po’ discoli, quando facevamo le bizze e strillavamo come aquile per avere l’attenzione dei nostri concittadini. Di questo passo a Guardia anche noi rischiamo di diventare il popolo, parola che odio ma che uso proprio perché la odio, che tutti vorrebbero. Innocui, spenti, inutili. Come se non esistessimo o non avessimo voce. E se qualche ronzio ogni tanto esce dal bicchiere e arriva alle loro pregiatissime orecchie appaiono infastiditi, occupati come sono a mettere in scena questo teatrino dove non si riescono nemmeno più a capire i ruoli. E non parlo solo della maggioranza (che abbiamo sostenuto): da cui mi aspetto solo il peggio e in merito ho aspettative talmente sottoterra che difficilmente riusciranno a stupirmi. Lo sapevamo benissimo che è gente che fa politica da più di trent’anni, che è già stata al Comune, alla Provincia, ecc… e incarna un’idea di vita e di mondo che era già vecchia cent’anni fa e politicamente (nelle cose che contano) è nuova e rivoluzionaria quanto potrebbe esserlo Angelo il cantante che suona una tarantella napoletana al Centro anziani. Non scherziamo, dai. Purtroppo a Guardia, come ben sappiamo, la situazione politica all’inizio di questo anno di penitenza è proprio la seguente: la maggioranza (o quel che ne rimane) per coprire la sua inconsistenza ogni tanto dice una banalità o una sciocchezza; la minoranza (parente stretto della maggioranza) attacca le banalità e le sciocchezze della maggioranza perché non può dirle e farle lei. Così, nessuno ha più la credibilità per dire o fare alcunché. Perché le banalità e le sciocchezze non hanno targhe. Compreso chi – tra parentesi – in questi anni non le ha denunciate e oggi non ha alcuna credibilità per denunciare alcunché. Chi vuol essere credibile faccia un fioretto per il 2025/6: provi a essere onesto con sé stesso. E, detto fra noi, sono anche stanco di stare lì ogni volta a ricordare chi sono e che storia abbiano. Sono sempre gli stessi di qualche decina d’anni fa. Tutti parte dello stesso sistema, gambe dello stesso tavolino, facce della stessa medaglia.
Infine, e chiudo, forse sono troppo esigente e poco pragmatico, me ne rendo conto, ma lo sono anche con me stesso, con le mie idee, con le passioni, con gli affetti. Non so essere diverso da così. E ho una parola sola, oppure sto zitto. E a qualche fan club integralista e a certi “bimbi di Floriano”, che in questi anni hanno letto le mie critiche ai loro idoli come attacchi efferati, oltre a invitarli a leggere tutto quello che scrivo e non solo le righe che gli fanno comodo (oppure valutare la sempre preziosissima opzione del silenzio), ricordo poi che io ho una testa pensante che fino a quando rimane tale ho intenzione di usare. E voglio dargli anche il consiglio di non fargli troppi complimenti, a chi oggi come ieri decide del nostro disgraziato paese, perché quelli se li fanno da soli, la loro autostima è quasi sempre fuori scala. Fategli le critiche, invece. È di quelle che Guardia ha bisogno per crescere. Aprite la mente, ve ne prego, non barricatevi nei bar; lo dico a tutti, non solo a questi o a quelli.
Perciò, caro Amedeo, il degrado morale e materiale che viviamo in questo paese richiede un impegno maggiore da parte di tutti, e il coraggio delle scelte. E se questo impegno i cittadini guardiesi non ce l’hanno, ne prendiamo atto, noi ce la caveremo lo stesso.
Buona Pasqua
Caro Raffaele, l’analisi fatta lascia poco spazio al dubbio… la “nostra Wardia Bella” dopo 50 anni di dominio assoluto dei “soliti noti” -ad eccezione dei 2 anni e mezzo dell’amministrazione Ceniccola- è diventata un “Comune marginale” cioè, caratterizzato da una desertificazione economica e sociale e privo di qualsiasi prospettiva di sviluppo nel breve e lungo periodo…. Auguri di una serena e Santa Pasqua. Amedeo
Per farla breve, la “nostra Wardia Bella” dopo 40 anni di governo esercitato con passione e lungimiranza dai soliti noti è diventata un “Paese marginale” caratterizzato da una desertificazione economica e sociale e senza alcuna prospettiva di sviluppo nel breve e lungo periodo. Auguri di una serena e Santa Pasqua. Amedeo