Buoni e cattivi

Dice anzi sbraita dal ballatoio della piazza principale – tutti in mascherina perché sono civili – che lui, è il er mejo fico der bigonzo. I buoni e i cattivi. I maestri e gli allievi. Gli altri, per dire gli allievi, chi osa criticarlo, chi posta video indecorosi, i retroscenisti, il popolino, gli impestati e chi sa che altro. O, come aveva detto solo pochi giorni fa, quelli che, se avrebbero vinto le elezioni, avrebbero riportato il paese al Medioevo. Frasario rivelatore di un personaggio inguaribilmente egocentrico. Non avversari, nemici, i cattivi, sottouomini da rimuovere dalla faccia della nobile terra di agricoltori, plurale, che fa più disprezzo. Chi sono i cattivi? Sono gli avversari di oggi come di ieri, i “mandanti” dei balordi commenti sui social; ma, più in generale, tutti quelli che hanno un pensiero eretico, che sono preventivamente invidiosi, falsi, opportunisti, irresponsabili. “Fate sfigurare la comunità sui social”, gli dice, esprimendosi come Alan Friedman: da che pulpito, si vede che ha rotto tutti gli specchi, ma lui, il buono, è così, convinto che la bellezza interiore riverberi fuori, sulla pelle. È buono ma implacabile, marmoreo, plumbeo e a tratti sconnesso come l’asfalto della via di montagna: “Fin dove può arrivare la bassezza umana. Non ho mai avuto una condanna…”. Che esempio, che morale: quella che, nella più pura tradizione atavica-mafiosa, serve a ribaltare una verità a forza di ripeterla, fino a che non diventa l’unica realtà e dunque la sola verità. Ma bisogna capirlo, è licenza artistica e poi il maestro è più buono che letterato. Come sempre, è questione di termini, la lingua del maestro batte sulle parole, le lustra, le adatta alla bisogna. Delegittimando i bersagli, gli allievi sul piano umano prima ancora che politico. Così, gli sciagurati intendono. La piazza intende, gente che fino a qualche anno fa si contorceva al solo sentirlo, sconvolta da spasmi convulsi, agitata come posseduti, ieri sera l’abbiamo vista applaudire entusiasta. “Io ne so troppe di ciascuno di voi”, ha quasi sussurrato il maestro, rivolto ai suoi allievi. Ho provato un profondo sentimento di vergogna nel sentire quelle provocazioni. Per me stesso, per i miei concittadini, quelli in fila sul ballatoio e quelli seduti ordinatamente in piazza. Ma soprattutto per i giovani. No, non è politica, è mafia, mentalità mafiosa, lo vado ripetendo da troppo tempo nel silenzio. E chi l’ascolta nella furia di voci ubriache di Falanghina e nel belare di pecore matte? Il maestro dice anzi sbraita dal ballatoio e i servi, dietro, a fare le stesse smorfie tra la repulsione e l’orrore, ah questi traditori, questi scarti, questi scappati di casa, ma scherziamo, ma dove ci porteranno se li lasciamo vincere? Vecchia storia l’Io strategico che esalta il più furbo, il potente tour court. “Il maestro è buono, è il migliore, il più competente, come lui non c’è nessuno… e poi si sa che cumannà è meglio che fottere”, belano le pecore matte come alibi per giustificare tutto, compresa la damnatio memoriae. Il Maestro è il buono, loro sono i buoni, il dna è lo stesso del Maestro, la genetica è quella: se sei contro sei cattivo e allora io ti odio, ma chi odia sei tu e proprio per questo meriti il mio odio. Il maestro è buono. E i buoni non cambiano, non possono, loro sono così, in missione per conto corrente, dolcemente complicati, portagli delle rose, nuove cose e troveranno sempre un nuovo slancio per salvare la nobile terra contadina. Un, due, tre, quattro: i buoni non possono fermarsi mai, c’è sempre un motivo per correggere la comunità, sono sempre vigili, sempre tesi al rinnovamento dello spirito. Ma lo fanno per noi, dolcemente per salvare il nostro habitat e, soprattutto, la coscienza. Gente che da piccina ha rimediato schiaffi, come da cresciuta del resto. Sono buoni, sono pieni d’amore: per loro stessi. E alla fine sul ballatoio arriva il Maestro e spunta la luna sul Maestro, il che, a pensarci bene, tutto è tranne che sorprendente. Buoni, sì. Proprio buoni. Buoni de che? Buoni a niente, ma capaci di tutto.

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