Cosa ci ha portato l’esserino svegliato dal sonno della foresta cinese? La realtà. La realtà si è presa la rivincita, con un’onda d’urto inattesa, improvvisa e più straordinaria di qualsiasi finzione. La realtà dei lutti, dolori, sofferenze, delusioni, disillusioni. Il virus è come l’anello di Sauron, ti fa distinguere il reale dal virtuale. È l’anello magico della consapevolezza. Tutti, qualcuno di più, altri di meno, siamo caduti a terra. In tanti se ne sono andati. Soprattutto quelli più svelti a morire, appartenendo anagraficamente alla categoria dei vecchi. Tanti, troppi quelli che il virus ha portato via. Tanti, troppi quelli dal volto stanco. È scomparso il sorriso, e che motivo ci sarebbe stando sempre chiusi in casa, si galleggia stanchi in un vuoto senza tempo, nella speranza di crearsi una motivazione autocertificata per poter prendere un’ora d’aria. Il tempo passa e tutto consuma. Ci si abitua a tutto, o quasi. Si perde il conto dei giorni. Le notizie che la stampa e la televisione ci rovesciano addosso, tutte eguali, rattristano gli animi ed allarmano le coscienze innanzi al morbo virale che, come un castigo biblico, ci sovrasta e ci dichiara inermi. Ma, di pari passo, l’animo umano si ribella all’acquiescenza e si rinvigorisce, trincerandosi intorno a valori religiosi e trascendenti ed a quelli della solidarietà. Bella l’iniziativa dei napoletani che aggiungono alla tradizione del “caffè sospeso”, ovvero quello di lasciare pagata una tazzina al bar per l’ignoto avventore di turno che non può permettersela, quella della “spesa sospesa” in favore degli indigenti. Quanto durerà? A lungo, almeno fino al vaccino. Ci sarà il rischio di ricadute? Come sarà il dopo? Nessuno sa quanto ancora durerà questo periodo, al momento non se ne vede un orizzonte temporale, ma sono certo che fra molti anni racconteremo alle future generazioni questi giorni come i nostri nonni raccontavano la guerra tenendoci sulle ginocchia. Teniamo duro, ci dicono gli esperti. Certo che teniamo duro, facendoci forza l’un l’altro, non occorre il contatto per percepire un abbraccio o una pacca sulla spalla, a volte le parole riescono a sopperire al calore del tatto, ed un sorriso virtuale può scaldare il cuore nonostante l’atmosfera surreale, l’isolamento e il silenzio. Già, il silenzio. Uno sterminato silenzio. Un silenzio che però ci fa comprendere la pochezza che ci gira intorno: un grande circo, una giostra immaginaria, con un canovaccio recitato a soggetto, gli applausi di parte e le lacrime finte. Maschere sul proscenio, chi defilato, chi emarginato e tagliato fuori a covare invidia o rancore. Un mondo che tutti ci auguriamo si stia allontanando, che forse non tornerà più ad esserci, che non piaceva a nessuno, del quale tutti si lamentavano, eppure temo che di quel mondo ci sarà ancora qualcuno che proverà una crescente nostalgia. E allora mi chiedo perché in questo tempo sospeso, fra il reale e l’irreale, come in assenza di gravità, non approfittare di questa tregua sabbatica di settimane, di mesi, per osservare in silenzio. Quello stesso silenzio che sarebbe opportuno oggi per i tanti che, con tanta solerzia, con tanta supponenza, destituiti di ogni competenza specifica continuano a sproloquiare saltando da un talk all’altro privi di ogni pudore, di ogni senso del limite. Sterile cicaleccio da salotti frequentati da vip o dai soliti opinionisti. Silenzio da contrapporre agli appelli di chi in queste ore drammatiche addirittura invoca un governo di Salute Pubblica. Espressione assai pertinente, forse, sul piano lessicale ma altrettanto inquietante sul piano storico. Perché il primo e più famoso governo di Salute Pubblica fu varato dai giacobini di Robespierre nell’aprile del 1793 e fu Terrore dopo la Rivoluzione di quattro anni prima. Silenzio essenziale per uscire dall’emergenza sanitaria, per il dopo-virus. Silenzio, davanti alle schermaglie del teatrino della politica, alle accuse reciproche da parte di figuranti, piazzisti o one-man-show televisivi sulla validità degli accorgimenti adottati per fronteggiare l’epidemia. Cedere il passo al cospetto di quella solidarietà nazionale che in altre epoche ha consentito al Belpaese di sconfiggere crisi economiche, eversione, terrorismo. Noi adesso temiamo il presente, ma non dobbiamo chiudere gli occhi davanti al futuro. È dal passato che dobbiamo scappare.