Provate a immaginare se il Palazzo in Italia non controllasse quasi la totalità dei media e se i cosiddetti editori di giornali non fossero quasi tutti col cappello in mano in attesa dei soliti favori alle loro aziende. Sarebbe bellissimo. I telegiornali, i talk show e le aperture dei quotidiani parlerebbero di quel che interessa ai cittadini, cioè di quel che succede nella vita reale di tutti i giorni. E darebbero voce ai politici solo quando fanno qualcosa di interessante – nel bene o nel male – per la gente che guarda o legge. Oggi non fanno assolutamente nulla di tutto ciò. Riportano solo gli sproloqui, le promesse, i proclami, le polemiche del Palazzo. Non c’è sospiro o flatulenza del Palazzo che non venga solennizzato dalla pseudo informazione come il Sacro Graal. A sua volta, il Palazzo, terrorizzato dai “populisti” che rischiano di vincere le elezioni e di spazzarlo via, tenta di sopravvivere tenendo in vita artificialmente leader bolliti e frattaglie varie, nella speranza che riescano ad abbindolare gli elettori e a salvare un’altra volta la baracca. Oggi l’Italia è un paese dominato dalla ruota della fortuna, e da concorrenti allo sbaraglio. Con la nuova legge elettorale ci hanno scippato un’altra volta il diritto di voto, cioè di scegliere i nostri parlamentari: e, a parte qualche centinaio di persone davanti al Parlamento, nessuno ha fatto una piega. Nessuno ha fatto un plissé. L’altro giorno si è scoperto da fonti molto bene informate che nelle scorse ore tra il segretario del Pd e il ministro Franceschini, uno dei capicorrente di maggior peso all’interno del partito, si sarebbe consumato uno strappo imprevedibile. Il motivo del litigio? Franceschini (che peraltro ha subito smentito) avrebbe chiesto a Renzi di riservare un collegio uninominale “blindato” o un posto sicuro in un listino proporzionale a sua moglie, Michela Di Biase, capogruppo del Pd in consiglio comunale a Roma. Liste piene di figli e mogli, nipoti e pronipoti. Ciò che conta è il cognome, e i voti che porta. Da destra a sinistra, si prepara la carica dei “raccomandati” che alle urne cercherà di proseguire la tradizione di famiglia. Da oltre un decennio la classe politica promette di tagliarsi i privilegi, a cominciare dai vitalizi, e ora scopriamo che il Palazzo nella scorsa legislatura voleva la pensione a 63 anni per sé e a 67 per noi comuni mortali: ma, a parte qualche cane sciolto, nessuno ha protestato. Tutti zitti (non una parola da Renzi e dagli altri big), in vista del governo Renzi-Berlusconi prossimo venturo. Al paese si continuano a prospettare redenzioni dal 5 marzo in poi, svolte epocali, disegni provvidenziali, soldi a tutti, giovani, sposati, pensionati, dentiere e gatti per cani e porci, niente tasse sulle auto, redditi di cittadinanza, d’inclusione, di dignità, di pietà. Poi passerà la festa e si troverà un grigio Gentiloni a raccattare i cocci del banchetto elettorale e a formare mesto e sbilenco un altro governo ibrido di passaggio, corridoio verso il nulla. Ora, viene di chiedere ai nostri concittadini a cui è rimasto del sale in zucca: è questo il meglio a cui aspiriamo? Possibile che dopo esserci lamentati per l’intero corso della legislatura siamo disposti il 4 marzo prossimo a farci prendere dalla pigrizia e a restare a casa in ciabatte, rincitrulliti davanti al televisore? Mancano cinquantasei giorni al voto. Iniziamo a fare un po’ di training autogeno per assuefarci all’idea che se non si schiodano le terga dalla poltrona e si va al seggio, le cose non cambieranno. E il giorno dopo ci ritroveremo ancora l’esangue profilo di Gentiloni a dirigere la musica. Non si può essere tanto masochisti. Non è possibile. Una bassa affluenza al voto è proprio ciò che auspica il Palazzo. Ma forse è meglio così, almeno tutto è chiaro a tutti e nessuno può più dire di non aver saputo: l’hanno capito tutti. Così come tutti hanno capito il nuovo gioco di quel che resta di Renzi che punta tutte le sue carte sul centrodestra nella speranza di abbracciarlo nel prossimo governo (sempreché Berlusconi abbia ancora bisogno di lui).
La sera del 4 marzo, chiuse le urne, sapremo molto di quel che ci riserva il futuro. Dipende da tutti noi: dal nostro voto.