C’è un’Italia che non fa notizia. Un’Italia che non marcia sotto le insegne della cronaca o del PIL, ma che continua a esistere silenziosamente, come una radice profonda. È fatta di borghi, colline, silenzi, piazze senza traffico e nomi senza risonanza mediatica. Uno di questi luoghi si chiama Guardia Sanframondi, e il suo destino somiglia sempre più a quello di un paziente dimenticato: cosciente, dignitoso, ma lasciato solo in fondo a un corridoio istituzionale che ha smesso di ascoltare. Leggo di parole che raccontano “il passato, la realtà, la fantasia, il sogno. Parole che portano alla riflessione, che colpiscono la coscienza, ti invitano a non restare indifferente. Di sinergia fra persone, associazioni, istituzioni”. Leggo di “lavori delicati, intensi, che sanno parlare al cuore e all’identità profonda di territori troppo spesso dimenticati. Di borghi che non chiedono altro che essere visti, ascoltati, vissuti. Di chi crede ancora che la cultura possa salvare i luoghi e le persone”. E questo mi fa dire che Guardia è ancora viva. E resiste. E poi c’è la realtà. La sua storia recente parla chiaro. Dai quasi 6.000 abitanti del 2000 ai 4.472 attuali: 1.500 anime in meno in un quarto di secolo. È come se ogni anno qualcuno avesse spento una luce. Ogni numero racconta un addio: una famiglia che parte, un negozio che chiude, un medico che va in pensione e non viene sostituito. Non è solo spopolamento: è erosione della speranza. E la speranza, si sa, è ciò che tiene in piedi le comunità più ancora dei servizi. Questa è oggi Guardia.

Come ha denunciato più volte l’antropologo Vito Teti, non siamo davanti a un effetto collaterale dello sviluppo, ma a un abbandono calcolato, a una forma di “darwinismo istituzionale” che ha ritenuto questi luoghi perduti, e dunque sacrificabili. Le politiche pubbliche si sono concentrate dove c’è già concentrazione. Le aree interne, quelle più fragili e periferiche, sono diventate un’eco lontana nella mente di chi governa. Ma quando lo Stato smette di credere in un luogo, quel luogo comincia davvero a morire. Guardia non è diversa da tanti altri paesi italiani: ha vissuto il sogno dell’emigrazione, il trauma dello spopolamento, la trasformazione delle campagne, l’illusione del ritorno. Oggi, però, qualcosa è cambiato. I giovani non partono più con una valigia e un legame da custodire. Partono con lo sguardo altrove, senza più neanche la malinconia del ritorno. La nostalgia si è consumata, e con essa anche l’idea che si possa restare senza rinunciare a tutto. Ma se è vero che restare non può essere un sacrificio, allora dobbiamo rendere il restare una scelta possibile. Una scelta degna, sostenibile, libera. Perché nessun giovane sceglierà di tornare – o di restare – in un luogo dove l’autobus passa una volta al giorno, dove le connessioni sono deboli, dove lavorare significa andarsene.

Eppure, Guardia Sanframondi ha tutte le carte per diventare un modello alternativo di vita. Qui ci sono case spaziose a prezzi accessibili, comunità coesa, ritmi umani, bellezza diffusa. C’è un tessuto sociale ancora vivo, fatto di volti che si conoscono, di abitudini condivise, di feste popolari che non sono eventi da brochure, ma riti profondi che danno senso al tempo.

Manca l’essenziale, però: sanità territoriale, collegamenti, servizi, infrastrutture leggere ma vitali. Non serve l’alta velocità. Serve una velocità normale, continua, affidabile. Un autobus ogni ora per Benevento o per Napoli può fare più per questo territorio che mille convegni sulla rigenerazione urbana o culturale. È qui che si gioca la sfida del riequilibrio territoriale: sulla dignità della quotidianità, prima ancora che sulle grandi utopie.

C’è un dato che molti ignorano, ma che racconta già un’altra possibilità. A Guardia vivono da anni famiglie straniere – in gran parte anglosassoni, ma anche provenienti da altre parti del mondo – che hanno scelto questo borgo come casa. Non sono turisti, non sono “presenze temporanee”: sono cittadini integrati. Partecipano alla vita del paese, fanno la spesa nei negozi locali, restaurano case abbandonate, contribuiscono alla rinascita di questa comunità. Portano con sé uno sguardo nuovo, ma non invadente. Non cancellano l’identità del luogo: la arricchiscono.

Anche per questo, parlare oggi di Guardia non è solo parlare di un paese marginale del Mezzogiorno d’Italia. È parlare di che Guardia vogliamo essere. Vogliamo un paese dove vivere bene è un privilegio? O vogliamo un paese antico che torna ad abitare sé stesso, che distribuisce bellezza, vita, possibilità? Perché Guardia oggi è soltanto una terra stagionale, per tanti (troppi) esiste solo d’estate, quando si ripopola di emigrati rientranti, si celebrano i santi, i giochi antichi e le Vinalie, si riempiono le case dei nonni. Per il resto dell’anno Guardia come entità geopolitica, culturale, sociale resta in silenzio, non è più presente, ma spicca il suo volo solo nei ricordi del passato. Una terra sospesa, che esiste solo nella memoria e nei sogni, ma che potrebbe e dovrebbe invece tornare ad essere pienamente reale.

La vera sfida non è urbanistica, né economica. È culturale. Finché considereremo i piccoli centri come Guardia “serie B”, li lasceremo morire. Ma se cominceremo a vederli per ciò che sono – luoghi di possibilità, di futuro, di comunità vera – allora potremo invertire la rotta. Come scrive ancora Teti, “si può cavare oro dalle nostre pietre”. Basta avere occhi per vederlo. E volontà per cercarlo.

Guardia Sanframondi non chiede utopie. Chiede ascolto, fiducia, opportunità. Non vuole essere conservata come un museo, ma vissuta come una casa. La scelta è nostra. Possiamo lasciarla spegnere in silenzio, oppure possiamo decidere che il cuore di Guardia e dell’Italia interna può ancora battere forte.