Predicarono il sublime, praticarono il mediocre. Potrebbe essere questo l’epitaffio per commentare la gestione Di Lonardo. Non lo nego: ho molto apprezzato in campagna elettorale il piglio garibaldino di alcuni candidati di quella compagine raffazzonata, soprattutto coloro che volevano dare un taglio alle liturgie ed agli infimi obiettivi che sono tipici del clientelismo più becero di questa comunità. Non rinnego il mio appoggio e non mi dolgo di nulla, ma non posso che sottolineare come tutto sia già finito nel nulla. Dopo quasi sei mesi sembra (e sottolineo, sembra) che il “cambiamento” si è agitato un po’ troppo, si è shakerato e i residui della scorza di arancio, nella quale i “nuovi” si erano infilati con entusiasmo, sono volati dappertutto. La Setta di lotta e cambiamento è diventata di poltrona e di sconcerto tra cambiali elettorali in scadenza, minacce, strappi, fronde, roba che la vecchia Balena Bianca al confronto impallidiva. E tutto nel giro di soli pochi mesi di potere, che, come noto, logora chi non ce l’ha ma all’occorrenza pure chi se lo ritrova ma non sa che farsene. D’altronde dagli albori della civiltà è esistita, nell’essere umano, questa semplice evidenza, la bramosia di potere. Intendiamoci: nulla di nuovo sotto il sole. Non c’era nulla di cui meravigliarsi. Pochi mesi, dicevamo, e i “gestori” del cambiamento al timone della comunità sono rammolliti, gli onesti disinvolti e i nuovi ragazzi e ragazze, beh, arrugginiti come i marpioni più incalliti. Un tempo duri e puri che altro non sono che il trattino di congiunzione tra due poteri ben definiti. Qualcuno afferma di vederli insoddisfatti. Altri sono convinti che stiano solo recitando la parte. I giudizi più benevoli dicono che sono solo omologati. La verità è che se oggi si scavasse in profondità dentro le loro anime, si troverebbe il vuoto. Ce ne guardiamo bene, infatti, dal farlo. Che fare, allora? Se qui pare tutta una guapperia di cartone, tanto più che sembra (e sottolineo, sembra) dentro la Casa dei guardiesi il caos ricorda la notte dei lunghi coltelli, da formaggio grana, ma sempre coltelli, l’uno contro l’altro, tutti hanno una mira, una tattica, una strategia: anche se nessuno sa bene quale sia. Neppure loro. Quanti guardiesi potranno ancora incantare? E per quanto tempo ancora? No. Non è rabbia, anche se pure quella c’è. È delusione. È un rancore che non trova una direzione. E checché se ne dica da tempo certi sentimenti si respirano nell’aria fitosanitaria e maleodorante di questo paese. È questa diffidenza che non ci fa credere più a niente, perché da troppi anni senti sulle spalle la sensazione che il passato finisca per sembrarti sempre migliore, tanto da farti innamorare della nostalgia. È il malessere di chi in questo antico paese ha smesso di sperare e tira avanti a sopravvivere senza aspettarsi troppo dagli anni che verranno. È la solitudine che si diffonde sempre di più – e non c’entra il virus -, perché il paracadute della comunità per molti si è strappato e quando cadi, quando esci dalla giostra, non c’è nessuno che si accorga di te. Saluti la gente, gli amici, e sotto la mascherina non si vede la piega della bocca, ma non ci vuole molto a capire che pochi sorridono. A vederli così, non viene voglia neanche di chiedere loro “come stai?”. Non è più scontato. Non è naturale. Non è più l’incipit di una conversazione. Il timore è che la risposta non sia affatto simpatica. Allora niente “come stai”. Prima o poi la pandemia finirà, ma l’orizzonte non promette, non rassicura, non dice più andrà tutto bene. Pazienza. L’importante è che ci sia la salute.