Sono trascorsi cinque anni da quando Di Lonardo ha assunto la guida di Guardia, eppure nulla di sostanziale sembra essere cambiato nella vita dei guardiesi: cittadini, contribuenti, comunità. Tutto è rimasto sostanzialmente invariato, nel bene e nel male, nella mediocrità diffusa come in quella particolare. È rimasto immutato anche il clima di intolleranza e di arroganza verso le idee che non rientrano nella tendenza dominante, verso chi prova semplicemente a dissentire, a porre domande, a esercitare il diritto di critica.
Non sapremmo indicare un fatto davvero rilevante che segni una svolta, un punto di non ritorno capace di dire al paese: da qui è iniziato un cambiamento autentico — sociale, morale, civile, culturale, qualitativo, o come lo si voglia definire — lasciando un’impronta riconoscibile della gestione amministrativa. Lo diciamo senza alcun compiacimento, anzi. Avremmo preferito tacere e occuparci d’altro. Ma scriviamo per non sottrarci, almeno a fine anno, al dovere di tentare un bilancio onesto, realistico e ragionato della situazione del nostro paese.
La narrazione propagandistica dei pochi sostenitori rimasti racconta obiettivi inesistenti e mette in scena scenari immaginari. La realtà è ben più prosaica: domina la routine amministrativa. Ciò che va in scena ancora oggi – dopo cinque anni – è apparenza, tatticismo politico, gioco delle parti, simulazione del cambiamento. Una mediocrità stabile — talvolta opprimente, talvolta persino ammantata di retorica dorata — ma priva di slanci e di visione prospettica. Nulla di significativo è mutato nella vita quotidiana, negli assetti urbanistici e sociali del paese, nella pianificazione del futuro, né sul piano delle idee né su quello culturale. Tutto è rimasto com’era, salvo le naturali evoluzioni e involuzioni del tempo. Prevalgono annunci vaghi, molta retorica vuota, piccole affermazioni simboliche, un po’ di propaganda comiziale e non poca ipocrisia. Le uniche vere novità, quando ci sono state, sono giunte dall’esterno: da competenze “straniere”, non autoctone.
In questi anni non è emerso alcun talento nuovo, nessuna figura promettente in ambito politico o culturale. Persiste lo stesso nucleo di potere di sempre; il resto è contorno, comparse, scenografia. Un sistema autoreferenziale che si autoalimenta e che non produce ricambio generazionale, né idee fresche, né energie innovative. A questo quadro si aggiunge un tratto ormai strutturale: l’arroganza di una classe politica e dirigente che non concepisce nemmeno l’ipotesi di poter essere contestata. Il dissenso non è considerato una risorsa democratica, ma un’anomalia da contenere; la critica non è uno strumento di confronto civile, ma un fastidio personale. Chi non si allinea viene guardato con sospetto, etichettato come oppositore, quando non ridicolizzato o delegittimato. È il sintomo di una fragilità profonda, non di forza.
Si tratta di una classe politica e dirigente sostanzialmente inconsistente sul piano culturale e progettuale, ma capace di perpetuarsi grazie a una fitta rete di relazioni familiari, personali e clientelari. È questo intreccio, più che il consenso reale, che da oltre un trentennio governa la vita socio-economica e politica di Guardia. Un potere che si tramanda, si adatta, cambia volto quando necessario, ma resta sempre identico a sé stesso, impermeabile a ogni vera istanza di rinnovamento.
Si sostiene una fazione o un candidato, ma si sa che, vinca o perda, nulla cambia davvero nella sostanza, né nella sfera privata né in quella pubblica. Le differenze sono nominali, non sostanziali.
Non siamo delusi da questa assenza di svolta, perché non ci eravamo mai illusi. Già prima delle elezioni, e poi all’insediamento di Di Lonardo e della sua giunta in Comune, avevamo avvertito che nulla di sostanziale sarebbe cambiato. Nessuna discontinuità era all’orizzonte, né avrebbe potuto esserci.
Per conquistare il potere e mantenerlo per almeno cinque anni, Di Lonardo ha dovuto seguire percorsi obbligati, rinunciando a diverse battaglie annunciate in campagna elettorale, lasciandole forse riemergere, occasionalmente, nei convegni o nei discorsi pubblici. Così è stato. Gli equilibri consolidati e le direttive tradizionali sono stati rispettati, la linea definita “Panza” è stata seguita, lo stile adottato è stato mimetico, di impronta democristiana. Una politica prudente e attendista, fondata anche sulla tolleranza dell’opposizione pubblica e istituzionale.
Del resto, è lecito pensare che anche l’opposizione, se fosse rimasta al governo del Comune, non avrebbe agito diversamente: si sarebbe attenuta alle medesime direttive, seguendo le stesse linee di fondo.
Con questa analisi disincantata sappiamo di scontentare i pochi che ancora sostengono con entusiasmo — o per semplice fedeltà di schieramento — Di Lonardo e la sua amministrazione, così come coloro che, all’opposto, giudicheranno queste valutazioni troppo indulgenti. Possiamo sbagliarci, naturalmente. Ma ci rifiutiamo di fingere e di ingannare. Se ad altri fa piacere continuare a credere alle favole, è una scelta loro.