Guardia vanta – si fa per dire – un’opinione pubblica che continua a ostinarsi nel non voler raccontare, nella giusta dimensione, il disastro culturale e politico che sta consumando il paese. Una sorta di pudore collettivo che non fa onore a nessuno. Una cittadinanza più esigente, oggi, pretenderebbe dai suoi amministratori un minimo di autocritica, traducendo in voce chiara quella crescente insofferenza sottoposta, ancora una volta, al solito spettacolo di cartapesta: un teatro dell’assurdo, stanco, dove i fatti non entrano mai in scena e dove le parole scorrono in un interminabile, stucchevole bla bla bla. Un ronzio vuoto, che denuncia senza pietà l’inadeguatezza cronica dei protagonisti della vita pubblica, incapaci di immaginare idee, metodi, soluzioni. Incapaci, dunque, di governare.

Eppure l’ambizione della politica, in questo frangente, dovrebbe essere una, limpida e inderogabile: salvare il paese. Ma è ormai evidente che la stessa vita sociale abbia subito, negli ultimi anni, un’involuzione che rasenta l’imbarazzante. Manca la politica a ogni livello istituzionale: quella politica concreta, artigianale, fatta di idee calibrate e metodo rigoroso. Quella che facilita la vita dei cittadini, che progetta il futuro della comunità, che garantisce dignità agli anziani. Tutto questo è sparito, come un bene di lusso fuori produzione.

Ci sarebbe bisogno – anzi, urgenza – non di un clan ma di un team, un gruppo di lavoro vero, capace di sapere cosa fare, quando farlo e perché farlo. Altro che la banale e inutile strategia dell’accontentare i soliti gruppi dell’oligarchia dominante: un esercizio di sudditanza che serve solo a rafforzare un potere fine a sé stesso, sterile, incapace.

La politica, intesa come materia soggetta a ragionamento, non esiste più. Da tempo. Chi ne parla, chi la racconta e chi la scrive lo fa come se fosse una rubrica di costume, un derby da bar: si tifa o si controtifa, e il merito sparisce sotto la sabbia. La politica non è più riconosciuta come il principale campo della dimensione umanistica, come il motore che dovrebbe favorire la vita di una collettività. Al contrario: viene ridotta a un palcoscenico di ambizioni personali di facce toste e dei soliti burattinai che muovono i fili nella penombra.

Da più di qualche decennio a Guardia Sanframondi, più che un dibattito politico, sembra di assistere a una riunione permanente di condominio. Solo che qui non si decide chi debba cambiare la lampadina del portone: si decide chi abbia diritto di esistere nello spazio pubblico. La scena si ripete sempre uguale a ogni elezione: si riuniscono in piccoli gruppi, come stormi di uccelli che improvvisamente trovano la stessa corrente d’aria. Parlano di comunità, di apertura, di progresso, ma lo fanno con la stessa cordialità con cui un buttafuori chiede il documento a chi non gli piace la faccia. Non è questione di idee: è questione di appartenenza, è questione di consenso. Il permesso di soggiorno ideologico non si chiede, si indovina.

E con questo, la discussione si chiude, il dibattito evapora, la comunità smette di essere comunità e diventa sala d’aspetto per chi ha il pass giusto. E lo spettacolo, visto da fuori, ha perfino tratti letterari: sembra di vedere una piccola accademia filosofica convinta di sorreggere il destino morale di Guardia; un gruppo di seminaristi laici che brandisce parole come “apertura”, “democrazia”, “civiltà”, “inclusione” come si brandiscono amuleti contro lo spirito impuro del dissenso. Solo che Guardia non è un monastero progressista in alta montagna. È un paese vero. Con gente vera. Che ha idee vere — e spesso diverse.

Non stupisce, allora, la strana e ineluttabile sensazione di sconforto che scorre in queste ore nelle vene della comunità, la percezione di una sconfitta generale che ha finito per offuscare l’umore popolare. Chi, dopo il “panzismo”, sperava in un rinsavimento collettivo, in un ritorno delle persone intelligenti e perbene al servizio della politica, è rimasto amaramente deluso. La buona fede – e con essa l’ultima sacca di speranza – è stata tradita senza alcuna eleganza. E, soprattutto, senza alcuna vergogna.

E allora sì, la vera novità – quella spettacolare, inverosimile, quasi da fantascienza – sarebbe una sola: dimissioni in blocco di chi occupa la scena politica guardiese da più di un trentennio. Tutti, insieme, per manifesta inidoneità. Una firma collettiva, da appendere alle bacheche comunali della memoria, come un memento di ciò che non si deve più diventare. Sarebbe l’atto che segnerebbe la fine del neo-oscurantismo locale e l’inizio di una fase nuova, in cui speranze e competenze, creatività e pragmatismo, lealtà e operosità possano marciare, finalmente, nella stessa direzione. Verso un destino più confacente alla magnificenza di un luogo come Guardia, liberato almeno per un istante dall’ombra di pseudo-massonerie e mafiosità assortite.

Ma perché questo esercito di impostori, e di streghe convinte di essere fate, dovrebbe mai ritirarsi? Perché dovrebbe rinunciare al privilegio del potere, anche quando il potere stesso non serve più a nulla? Già, perché? È gente dedita a farsi dare retta, per lo più corrotta, sempre inadatta. Per questo nessuno li smuoverà: resteranno lì, incollati alla sedia, a esercitare un potere inutile e deleterio, chi in politica, chi nella vita sociale, chi nel suo personale ruolo caricaturale, degno della più triste barzelletta.

Si può riderne. O piangere. A libera scelta di chi legge.