A Guardia Sanframondi i social funzionano come un termometro rotto: segnano sempre lo stesso valore, a prescindere dalla febbre civile che serpeggia sotto la pelle del paese. Sembra quasi che Facebook, qui, non sia uno spazio pubblico, ma un confessionale capovolto: si entra per tacere, non per parlare.
Il fenomeno è semplice e inquietante: gli articoli che criticano la politica locale vengono letti da centinaia di persone, ma condivisi da nessuno. I “mi piace” sono ancora più rari degli avvistamenti di comete. Si legge, sì—magari con voracità nascosta—ma non si lascia traccia. Perché? Perché a Guardia Sanframondi, più che altrove, vige quella massima antica da tempo di guerra: “Taci, il nemico ti ascolta.”
E qui il “nemico” non è un regime, non è un potere oscuro: è semplicemente il vicino di casa, il cugino assessore, il parente del sindaco, il conoscente che ti può creare un fastidio in futuro. È il timore arcaico di farsi vedere dalla parte sbagliata, di essere associati a una critica, di risultare scomodi.
Perché Guardia Sanframondi è una comunità particolare, fatta di autoassoluzioni quotidiane, di piccoli favoritismi distribuiti come ostie laiche, di timori ancestrali, di una prudenza così radicata da sembrare patrimonio genetico. Qui l’indolenza collettiva non è solo un’abitudine: è un ecosistema, una forma di vita, un modo per sopravvivere senza esporsi troppo. Anzi, senza esporsi mai.
E così succede questa magia rovesciata: pubblichi un articolo critico, pungente, cerchi di rompere un velo di ipocrisia, e nel giro di poche ore scopri che è stato letto da centinaia di persone. Lo vedi dalle statistiche, lo sai. Ma sotto il post c’è il deserto: zero condivisioni, zero like. Nemmeno un timido gesto di approvazione. Silenzio assoluto. È come parlare in una piazza affollata dove tutti ti ascoltano ma fingono di essere soli.
Questo silenzio, però, non è neutrale. Non è semplice indifferenza. È un silenzio pesante, impregnato di paura sociale. Dice molto più dei commenti che non arrivano: racconta un paese che si guarda allo specchio e preferisce non riconoscersi. Una comunità che ha paura di essere vista mentre pensa. Che teme la libertà di avere un’opinione, figuriamoci quella di manifestarla.
Dicono che i social amplifichino tutto: rabbia, passione, partecipazione. A Guardia Sanframondi amplificano soprattutto una cosa: la prudenza tribale. E allora quegli articoli letti e mai condivisi diventano un simbolo. Non del fallimento di chi scrive, ma del limite di chi legge. Un limite culturale, sociale, identitario. Un limite che pesa su tutti, perché un paese che non sa dire ad alta voce ciò che pensa è un paese che smette di pensare davvero.
Eppure basterebbe un gesto semplice: un like, una condivisione, la dichiarazione minima che non siamo sudditi ma cittadini. Ma forse è proprio questo il problema: qui, spesso, a essere rivoluzionario è il semplice atto di non aver paura.