È confortante sapere che, nel 2025, la sanità pubblica nel Sannio continua a offrirci un viaggio nel tempo. Non nel futuro, come si potrebbe sperare, ma nel Medioevo. O forse nel Terzo Mondo, dipende dal turno. Un’esperienza formativa, educativa, quasi antropologica: un tuffo nel caos, nell’inefficienza e nella disperazione. Tutto a spese nostre, naturalmente.

Ho assistito — mio malgrado — a una scena che neanche in un documentario sulla miseria urbana del secolo scorso — preferisco non fare nomi, più per discrezione che per evitare querele —: uno stanzone enorme, con almeno un centinaio di pazienti, pieno di corpi su barelle, pazienti accatastati come pacchi in attesa di smistamento, persone su carrozzine in attesa da ore, a volte da giorni, corpi accostati uno all’altro senza privacy. Il personale sanitario — veri eroi, ma ormai esausti — si muove tra le urla, i lamenti e la rassegnazione. E noi dovremmo chiamarlo “pronto soccorso”?

Ci si domanda: è possibile che nessuno, dico nessuno, nella politica locale o nazionale, trovi il coraggio di guardare questa realtà in faccia? È possibile che l’unica risposta sia sempre la stessa: “mancano le risorse”? Strano, però, che le risorse non manchino mai per la sanità privata, che anzi prospera come non mai. Là dove ci sono convenzioni, fondi, rimborsi e inaugurazioni con tanto di nastro tricolore, tutto funziona a meraviglia. Nel pubblico, invece, si sopravvive, letteralmente.

A breve si voterà di nuovo in Campania. E già si sente il ronzio dei proclami elettorali: “rilanceremo la sanità territoriale”, “apriremo il pronto soccorso di… h24”, “più medici di base”, “più servizi per i cittadini”. Bellissime parole, peccato che ogni volta finiscano come le barelle nei corridoi: accantonate per mancanza di spazio.

Eppure, ogni cittadino che passa anche solo una notte in quei pronto soccorso sa che non stiamo parlando di numeri, ma di persone. Di anziani lasciati soli per ore, di giovani medici che fanno doppi turni perché non c’è nessuno a sostituirli, di infermieri che reggono il sistema con la forza della volontà. Tutti vittime di un modello sanitario che ha scelto scientemente di far morire il pubblico per ingrassare il privato.

La pandemia avrebbe dovuto insegnarci qualcosa: che la sanità pubblica è un pilastro dello Stato, non una spesa da contenere. E invece si è tornati rapidamente alla logica dei numeri, degli equilibri di bilancio, dei favori e delle clientele. I pronto soccorso, cuore pulsante del sistema, sono diventati discariche sociali dove finiscono tutti: chi non può permettersi una visita privata, chi non trova un medico di base, chi non ha alternative. E chi ci lavora, ogni giorno, paga il prezzo più alto.

E allora sì, indigniamoci pure. Ma finché continueremo a votare chi da anni promette “riforme strutturali” e poi taglia letti e personale, forse il problema non è solo loro. È anche nostro, di cittadini troppo abituati a sopportare l’insopportabile. Finché non si avrà la forza di dire basta a questo scempio, finché non si tornerà a considerare la salute un bene comune e non un affare da gestire, ogni barella in corridoio sarà una sconfitta per tutti noi. Non solo per la sanità, ma per la civiltà di un intero Paese.

Nel frattempo, se vi capita di entrare in un pronto soccorso sannita, portatevi un panino, una coperta e tanta pazienza. La salute, ormai, è un lusso. Ma l’attesa, quella, è garantita per tutti.