Guardia Sanframondi, anno 2025. Trent’anni dopo, tutto come prima. Il tempo scorre, le generazioni cambiano, ma certi volti restano più immobili delle pietre del castello dei Sanframondo. Li guardi e li senti, ascolti i loro discorsi, gareggiare a chi si indispettisce di meno, poi ascolti i tifosi che gli fanno da mentori, troppo spesso mediocri cazzari e compiacenti, pronti a inchinarsi a ogni slogan. Li ascolti, e subito pensi che questo paese ha perso ogni speranza. E intanto, l’ironia muore soffocata dalla grande muraglia dei deficienti, che sembra allungarsi più che in Cina
Da trent’anni, gli stessi nomi campeggiano sulle liste elettorali come se la politica locale fosse un album Panini da completare con le stesse figurine, stagione dopo stagione. Cambiano gli slogan, ma loro no: sempre lì, pronti a offrirsi per “servire la comunità”: e magari servirsene ancora un po’. Poltrone, strapuntini e giostre del potere. C’è chi ha fatto il sindaco, poi l’assessore; chi ha conquistato uno strapuntino in qualche società partecipata; e chi, con la stessa agilità di un giocoliere medievale, è riuscito a passare da un incarico all’altro senza mai cadere. Un giro di poltrone degno di una giostra, con l’unica differenza che, al termine del giro, non si vince un peluche ma un posto ben retribuito. E sarebbe interessante, come diceva Beppe Grillo in tempi non sospetti, dare un’occhiata ai conti correnti di certi “servitori del popolo”: com’erano all’ingresso in politica e com’erano dopo trent’anni di dedizione alla res publica. Giusto per capire se, in paese, a crescere siano stati solo i loro redditi e non la qualità della vita dei cittadini. Già, perché in tutto questo, il potere e il denaro sono diventati il vero centro del loro universo. Li vedi, questi personaggi, muoversi con l’avidità di chi non ne ha mai abbastanza: sempre pronti a contendersi un incarico, un rimborso, un gettone di presenza, una fetta di visibilità. Tutto è funzionale al mantenimento del potere, anche a costo di sacrificare la comunità che dicono di rappresentare. Il bene comune, per loro, è solo un concetto da campagna elettorale: buono per il comizio di piazza Castello, ma subito dimenticato appena si spengono i microfoni. Il denaro e l’influenza sono la vera bussola che orienta le loro scelte, e ogni gesto, ogni decisione, sembra rispondere a un solo principio: conservare la propria posizione, costi quel che costi. E mentre loro si assicurano un futuro sereno, la comunità che dicono di servire si assottiglia, perde energie, speranze e voce. Guardia Sanframondi si spegne. Le case si svuotano, le attività sopravvivono a fatica, e i giovani fanno le valigie: verso nord, all’estero, o semplicemente altrove, dove la parola “merito” non è un sinonimo di “parentela”.
Ma tranquilli: i nostri instancabili protagonisti della scena pubblica sono già pronti a tornare in pista sin dalla prossima primavera. Con il piglio dei salvatori della patria e il curriculum di chi, in trent’anni, ha avuto tutto il tempo per fare… esattamente ciò che vediamo oggi. Un paese sempre più irrilevante, sempre più spopolato, sempre più stanco. Eppure eccoli lì, con la mano sul cuore e lo sguardo rivolto al futuro: il loro — e quello dei loro figli, parenti e cognati —, s’intende, non certo quello della comunità.
C’è qualcosa di miracoloso in loro: resistono al tempo, alle mode, ai cambi di vento, alle crisi e persino al buonsenso. Sono come le piante grasse: non hanno bisogno di consenso, basta un po’ di potere ogni tanto e continuano a fiorire, verdi e rigogliosi, da trent’anni. E il bello è che riescono pure a convincere qualcuno che “l’esperienza conta”, come se l’aver partecipato per decenni al declino del paese fosse una medaglia al valore.
Chissà se alle prossime elezioni avranno il coraggio di parlarci ancora di “cambiamento”. In fondo, dopo tre decenni di permanenza in cabina di regia, un cambiamento ci sarebbe davvero: lasciarci finalmente liberi di provare qualcosa — o qualcuno — di diverso. Magari meno “esperto”, ma più onesto; meno navigato, ma più interessato al bene comune. Perché, a forza di vedere sempre gli stessi volti, il rischio è che un giorno, al seggio, più che una scheda elettorale ci ritroveremo davanti a una foto di gruppo con la scritta: “Bentornati! Siamo ancora noi!”