C’era una volta, in un Paese dalla forma di stivale e dalla memoria corta, un potere chiamato “Quarto”. Non era nato per comandare, ma per controllare chi comandava: un cane da guardia della democrazia, con il microfono al posto dei denti. Poi, un giorno, il cane ha scoperto che si vive meglio facendo la guardia al padrone anziché del padrone.
Oggi, il “quarto potere” è diventato il primo, con buona pace della Costituzione e dei cittadini. Non decide solo cosa sapere, ma anche come pensarlo. I governi cambiano, i ministri passano, ma i direttori restano: immobili, solidi, eterni come un servizio pubblico in seconda serata.
Gli editori “puri” — quelli che facevano solo informazione — sono ormai una specie in via d’estinzione, come i panda, ma meno simpatici. Al loro posto troviamo gli editori impuri, quelli che possiedono giornali per difendere le proprie aziende, televisioni per compiacere il potere, e magari persino un canale YouTube per sembrare moderni. Il tutto, naturalmente, sotto il nobile vessillo della “libertà di stampa”.
Libertà, sì: la libertà di dipendere dai finanziamenti pubblici e dagli spot governativi, che piovono a seconda della fedeltà editoriale. Se una televisione, un quotidiano osa criticare troppo, rischia di finire a dieta mediatica: niente finanziamenti pubblici, pubblicità istituzionali, niente accesso alle “fonti”, e magari qualche visita della Guardia di Finanza (puramente casuale, ci mancherebbe).
I giornalisti, poveri loro, oscillano tra l’autocensura e la sopravvivenza. Scrivono editoriali indignati sull’indipendenza dell’informazione, ma li fanno approvare dal caporedattore che li fa leggere all’ufficio stampa del ministro. Un perfetto corto circuito democratico, una commedia all’italiana dove il “giornalismo d’inchiesta” è quello che indaga su cosa farà il meteo nel weekend.
Nel frattempo, il cittadino medio si consola con i talk show, convinto di assistere a un libero confronto di idee, mentre in realtà guarda un reality show politico, dove ogni ospite recita il suo ruolo: il finto oppositore, il moralista indignato, il moderatore che modera tutto tranne il potere.
Così il “quarto potere” è salito sul trono, ma non per ribellione: per convenienza. Ha smesso di fare domande scomode, perché ha scoperto che si vive meglio facendo opinione di servizio. In fondo, chi ha bisogno di verità quando si può avere la narrazione e la propaganda?
E allora sì, possiamo dirlo senza più ironia (o forse proprio con quella): in Italia il quarto potere è diventato il primo. Ma non per merito: per occupazione. E finché i cittadini continueranno a credere che “informarsi” significhi scorrere un titolo sui social o condividere un post indignato su Facebook, il potere vero — quello di scegliere cosa sapere — resterà saldo nelle mani di chi l’ha comprato a rate, con soldi pubblici e silenzi privati.
Benvenuti nel paese dove la libertà di stampa è sacra, purché non disturbi nessuno.