Da troppi anni Guardia Sanframondi naviga in acque torbide, prigioniera di una politica che ha perso credibilità e capacità di visione. Le promesse si ripetono, i nomi pure, ma il paese resta fermo, affondato nella palude di piccoli interessi, giochi di corrente e improvvisazione amministrativa. È come se la nostra comunità avesse smarrito la fiducia non solo nei suoi rappresentanti, ma nella possibilità stessa di essere rappresentata da qualcuno capace e onesto.
Le prossime liste – i soliti nomi riciclati, i compromessi al ribasso – confermeranno purtroppo una tendenza che dura da decenni: l’incapacità di rinnovarsi davvero. Si cambia facciata, non sostanza. E ogni volta, a elezioni finite, ci ritroviamo con un’amministrazione fragile, priva di coesione e di visione, piegata a logiche di scambio e di sopravvivenza politica.
Eppure, a Guardia, esistono intelligenze, competenze, energie civiche e professionali che potrebbero fare la differenza. Il problema è che non trovano spazio, né fiducia, in un sistema politico che difende sé stesso prima di tutto.
È tempo di dire basta. Se davvero vogliamo salvare Guardia, serve un cambio di paradigma: un’amministrazione dei migliori, non dei più fedeli o dei più rumorosi. Serve una “squadra di salvezza”, non l’ennesima armata Brancaleone. Chi da decenni è sulla scena politica guardiese dovrebbe avere il coraggio — per una volta — di fare un passo indietro. Non di rinunciare alla politica, ma di restituirle dignità. Forse è un sogno. Ma la vera follia, oggi, sarebbe continuare come se nulla fosse. Pensare che la Guardia di domani possa rinascere con gli stessi metodi, gli stessi protagonisti, le stesse logiche di convenienza che l’hanno portata alla paralisi. C’è bisogno di aria nuova, ma non di dilettantismo; di partecipazione vera, ma non di rabbia sterile. Serve la competenza, la serietà, il coraggio civile di chi ama davvero il paese più di sé stesso.
Se chi ha governato fino a oggi saprà farsi da parte, forse potremo ancora sperare in una Guardia che non sopravvive soltanto, ma che ricomincia a vivere. Perché oggi, più che mai, Guardia è la comunità dove tutto cambia affinché nulla cambi, dove la politica non è un servizio ma un mestiere di famiglia, e dove ogni elezione è la replica della replica, un déjà-vu politico che farebbe impallidire anche Nietzsche, una rimpatriata più che una competizione democratica.
Un luogo incantevole, certo. Colline, vino, tradizioni, fede. Ma anche una comunità sospesa in un eterno presente amministrativo, dove il futuro è sempre “in lavorazione” e la speranza è stata messa in ferie non retribuite. Già, perché qui la politica non si vince, si eredita. Il potere passa di mano in mano come il vino nuovo alle feste: c’è sempre lo stesso gusto, ma ogni volta qualcuno giura che “questa è un’annata diversa”. Ci sono cognomi che contano più dei programmi. Qui non si vota un’idea, si vota un parente. Il nepotismo qui non è scandalo: è tradizione. Come il vino o la processione. Il vero peccato non è chiedere un favore, ma non chiederne abbastanza.
Tra qualche mese si vota. L’aria è elettrica: anzi no, è statica. Si sente odore di novità… ma è solo la vernice fresca sulle vecchie facce. Cominciano le manovre, le cene, le chiacchiere, i “si dice”, le alleanze che durano una settimana e le faide che durano una vita. Tutti parlano di rinnovamento, ma nessuno sa cosa significhi. Perché a Guardia il nuovo non nasce: si reincarna nel vecchio. Così, tra un post sui social e una promessa, rientrano in scena i soliti noti: l’eterno candidato che si crede indispensabile, il figlioccio del vecchio sindaco per cui “ora tocca a lui”, il competente “super partes” che ha più parti di un film di Totò. E la gente? La gente guarda, sospira, mugugna: “Sono sempre gli stessi”. Poi va a votare… e li rivota. La rassegnazione come cultura. Il popolo guardiese è come un fumatore incallito: sa che il sistema lo danneggia, ma non riesce a smettere. Dice: “È sempre la stessa storia”, ma poi aggiunge: “E che vuoi fare?”. Questa frase — “E che vuoi fare?” — è la vera Costituzione di Guardia Sanframondi. Un atto di resa generale, firmato in silenzio da tutti. Perché in fondo cambiare significherebbe rischiare. E il rischio, si sa, qui è sconveniente. Meglio lamentarsi. Meglio il brontolio sterile, la satira da bar, l’indignazione con il Quid. Meglio la rassegnazione in formato conviviale. Perché a Guardia la vera religione non è quella delle processioni, ma quella dei legami. Il familismo è un sacramento. Ti battezzano con la promessa: “Vedrai che un giorno, se serve, ci penso io”. Il favore è la moneta locale. La raccomandazione, la lingua ufficiale. E l’onestà, una virtù esotica, da ammirare ma non praticare troppo: “Bella, sì, ma poco conveniente”. Chi osa non chiedere, chi prova a fare da sé, diventa subito un corpo estraneo. “Non si è inserito”, dicono. Traduzione: non ha imparato a inchinarsi. Ogni tanto qualcuno tenta la ribellione. Nascono “associazioni civiche”, “movimenti indipendenti”, “gruppi di giovani”. Poi li vedi: due mesi dopo, già seduti al tavolo con chi dovevano combattere. È il classico gioco delle parti: uno fa finta di criticare, l’altro finge di governare, e alla fine si brinda insieme, tanto il giro è sempre quello.
Eppure, la cosa più geniale è che tutto questo funziona. Il sistema si autoalimenta, come un orologio svizzero del favoritismo. Ognuno ottiene qualcosa: un posto, un appalto, una pacca sulla spalla, una promessa da sbandierare. E intanto il paese resta lì, sospeso. Immobilmente dinamico. Vecchio travestito da nuovo, cambiamento a gettoni. Dove la politica è un affare di famiglia, e la famiglia è un affare politico. Dove il cambiamento è sempre dietro l’angolo, ma l’angolo non arriva mai.
E allora avanti, cittadini! Preparatevi alla solita tornata elettorale, con i soliti volti, le solite promesse, le solite mani da stringere. Sorridete, fate finta di crederci, e ricordate: a Guardia il futuro non è un diritto, è una concessione.