Viviamo sotto assedio. Non nel senso fisico del termine, ma psicologico, informativo, politico. Da anni ormai, il nostro orizzonte quotidiano è costantemente oscurato da un’unica, martellante narrativa: la guerra. Che si tratti del conflitto in Ucraina, del massacro a Gaza, delle minacce nucleari, dei droni, dei carri armati o delle sanzioni, l’agenda mediatica e politica occidentale — e italiana in particolare — sembra incapace di uscire da questo frame globale. Non c’è altro. Non esiste altro. Eppure l’altro c’è. È il nostro presente, concreto e doloroso, fatto di salari stagnanti, scuole fatiscenti, ospedali in affanno, città sempre più invivibili, rapporti sociali erosi dalla solitudine digitale. Ma questi temi, anche quando emergono, sono trattati come una nota a piè di pagina nella grande cronaca geopolitica. La guerra ha divorato tutto: il dibattito pubblico, le priorità politiche, perfino la possibilità di immaginare un cambiamento.

Questo non è un editoriale pacifista. È un grido civile contro una colonizzazione dell’attenzione, che ha trasformato l’informazione in un bombardamento emotivo continuo, fatto di allarmi, breaking news e dibattiti urlati. Una distrazione di massa che ci impedisce di guardare dove viviamo, come viviamo, con chi viviamo. L’Italia è spettatrice passiva, certo, ma anche vittima attiva di questa ipnosi collettiva. I governi si dividono tra chi prende posizione pro o contro l’ennesimo leader straniero, ma nessuno prende posizione, davvero, sui problemi degli italiani. Le opposizioni? Spesso inseguono gli stessi temi per non perdere visibilità. E intanto il Paese reale scompare, inghiottito nel vuoto.

Ci siamo disabituati a ragionare in termini sociali, comunitari. Tutto è o globale, e quindi ingestibile, oppure personale, e quindi patologico. Se sei precario, frustrato, arrabbiato, non è che il tuo lavoro fa schifo o la tua comunità cade a pezzi: sei tu che hai un problema. Curati. Respira. Medita. Vai in analisi. Ma guai a chiamarlo disagio sociale. Guai a dire che l’emergenza vera è quella che abbiamo sotto casa. Siamo diventati spettatori di un mondo che brucia e di un Paese che si spegne. Ci restano i telefonini, le stories, i commenti a raffica sui social. Un’opinione su tutto, tranne che su ciò che ci riguarda davvero. Un click per ogni indignazione globale, ma nessuna azione concreta nella nostra comunità.

Siamo ancora in tempo per cambiare? Forse. Ma servirebbe un coraggio che oggi manca: il coraggio di tornare a parlare di politica come servizio e non come show. Di tornare a guardare alle periferie, agli ospedali, alle scuole, alle persone anziane che si arrangiano con pensioni da fame, ai giovani che scappano all’estero non perché sognano, ma perché qui non c’è più niente da sognare.

La guerra continuerà, probabilmente, per molto tempo ancora. Ma il vero danno non lo stanno facendo solo le bombe: lo sta facendo questa emergenza permanente che ci ha tolto l’alfabeto della normalità, la grammatica dell’azione collettiva. Non possiamo più permetterci il lusso dell’inerzia. Se non ricominciamo a parlare del nostro mondo — di ciò che ci circonda, ci riguarda, ci tocca — allora avremo perso molto più della pace.

A Guardia Sanframondi non cadono le bombe, ma ogni tanto crolla un muro. Non ci sono missili, ma qualche ambulanza in meno sì, qualche servizio in meno sì, qualche sportello bancario in meno sì. Niente droni nei cieli, solo qualche rondine che, testarda, torna ancora in primavera. Eppure anche qui, nel cuore sonnacchioso di Guardia, respiriamo la guerra. Non quella vera, con gli elmetti e le trincee, ma quella che ti entra nelle orecchie a colpi di notiziari. È la guerra dell’informazione globale, l’assedio permanente del “problema planetario”: oggi Gaza, ieri Kiev, domani Taipei. Ogni giorno una catastrofe, purché sia lontana abbastanza da evitare responsabilità. E così, mentre l’umanità si gioca il futuro a colpi di geopolitica, a Guardia, fra un caffè al bar, si parla del tempo, della vendemmia. Si chiude un’altra attività, il servizio di cassa della banca locale, il Postamat dell’ufficio postale, il liceo scientifico. Le strade si svuotano lentamente, le scuole fanno l’appello con le dita, i giovani se ne vanno con il trolley e una promessa: “Tanto qui non c’è niente”. E i vecchi restano a contare i giorni e i farmaci. Ma in compenso, signori miei, grazie ai social e ai TG sappiamo tutto: sappiamo chi ha detto cosa su Facebook, chi ha bombardato chi e chi ha smentito il bombardamento. Sappiamo tutto, tranne dove siano finiti i fondi per la casa albergo per anziani in costruzione da quarant’anni, chi decide davvero sulla sanità locale, perché non si aprano cantieri, perché ci si ammali di solitudine anche con cinquemila contatti su Facebook.

Qui non si fa la guerra, ma non si fa nemmeno politica. Si fa polemica, che è molto più semplice e molto più soddisfacente. Si litiga su tutto, purché non serva a niente. Si votano sempre gli stessi, si legge meno, si commenta tanto. E se provi a chiedere: “Scusate, ma quando parliamo del nostro liceo, del nostro ospedale, dei giovani che partono, dei vecchi che restano, dei lavori che non ci sono?” ti rispondono che sei depresso, che devi farti una vacanza, che la colpa è di Putin. O di Trump. O di qualche Ministro mai stato qui.

Nel frattempo, anche l’amministrazione locale — quella che dovrebbe occuparsi del marciapiede rotto, della piazza che si svuota, del senso di comunità che si sbriciola — preferisce giocare a Risiko: scacchiere, strategie, polemiche sul nulla e titoli altisonanti sui social. Perché parlare dello spopolamento del paese è noioso; meglio indignarsi per l’ultima frase shock di Trump.

Eppure qui, a Guardia, la vita continua. Si fanno figli (pochi), si invecchia (tanto), si coltiva la terra, si beve un bicchiere di ottimo aglianico, si spera in qualcosa che somigli a un futuro. Anche se nessuno lo racconta più. Sarà che la realtà, quando non fa rumore, non fa notizia. E noi siamo diventati così: abituati al rumore, incapaci di ascoltare. Ma forse, chissà, un giorno smetteremo di urlarci addosso. E ci accorgeremo che, nel silenzio della nostra piazza, tra un caffè e una bestemmia, tra una buca che si allarga sempre di più e una sagra godereccia, c’era ancora qualcosa da salvare. Qualcosa di profondamente nostro.

Un’idea, forse.

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