A Guardia regna una strana forma di smarrimento. È una comunità che non riesce più a pensarsi, a immaginarsi, a proiettarsi nel futuro. Eppure il suo patrimonio – il paesaggio, le rovine, i riti religiosi, le tradizioni contadine, le architetture secolari – non è solo bellezza da contemplare, ma potrebbe essere materia viva per costruire identità, economie sostenibili, cultura condivisa. Potrebbe, appunto. Perché oggi, invece, tutto questo sembra un ostacolo.

Il vero dramma è che una parte significativa della classe dirigente – politica, economica e perfino intellettuale – ha smesso da tempo di lavorare per il bene comune. Con poche eccezioni, ha preferito il consolidamento di piccoli poteri personali: isole di influenza, serbatoi elettorali, reti clientelari. Si è rinunciato alla visione collettiva in cambio di vantaggi individuali. E il risultato è sotto gli occhi di tutti: stagnazione, frustrazione, spopolamento.

Questa classe politica e dirigente – e lo si deve dire senza più giri di parole – fa il bello e il cattivo tempo da decenni, spesso con la compiacenza o la rassegnazione di ampi settori della cittadinanza. Ha costruito un sistema chiuso, impermeabile al cambiamento, che si alimenta di clientele, di voti controllati, di favori elargiti e mai gratuiti. Ha coltivato la cultura della sudditanza, non quella della partecipazione. E, soprattutto, ha alimentato un senso comune malato, secondo cui “tanto non cambia mai niente”: un alibi perfetto per giustificare l’immobilismo e legittimare la propria permanenza.

Non è solo un problema di idee: è un problema di volti e di nomi, di figure che hanno monopolizzato ogni spazio decisionale, culturale e sociale, spesso senza alcuna reale competenza, ma con una determinazione feroce a non mollare la presa. Se si vuole davvero un cambiamento, queste persone vanno “pensionate”. Con rispetto, ma con fermezza. Perché hanno avuto il loro tempo, le loro occasioni, e hanno fallito. Continuare a tollerare questa occupazione sistematica del potere locale – senza alternanza, senza trasparenza, senza autocritica – significa condannare il paese a un’eterna replica del passato. Ma ciò che oggi serve non è un nuovo giro di valzer con i soliti noti. Serve una rottura, una discontinuità vera, che parta da volti nuovi, da idee nuove, da pratiche diverse.

Insisto. Restare a Guardia, oggi, è un atto di resistenza. Ma non quella eroica e romantica. È una resistenza quotidiana, spesso invisibile, fatta di piccoli gesti per salvaguardare i luoghi, le relazioni, la memoria. Un’esperienza dolorosa e radicale: sentirsi fuori luogo proprio nel posto in cui si è nati. Come vivere un esilio senza partire. A rendere tutto più difficile è il clima sociale avvelenato da un gruppo minoritario – ma rumoroso e ben radicato – che pretende di giudicare tutto e tutti. Si ergono a depositari della verità e del “bene del paese”, ma in realtà coltivano un’autoreferenzialità tossica, un’ideologia della purezza che esclude chiunque non si pieghi alla loro visione. Non è confronto democratico: è squalifica preventiva. Non è dissenso costruttivo: è denigrazione sistematica. E così, anno dopo anno, questa mentalità sta uccidendo ogni forma di partecipazione. I cittadini, stanchi di essere etichettati come “buoni” o “cattivi”, si ritirano, votano scheda bianca, scelgono il silenzio. Ma il silenzio, in una democrazia, non è mai neutro: è uno spazio lasciato libero a chi grida più forte.

Guardia non è un paese fermo nel tempo. È un paese da ricostruire nel tempo. Con pazienza, con coraggio, con lentezza. Ricominciando dai cocci, dai frammenti, dagli scarti. Non c’è nulla di nostalgico in questo: c’è, semmai, il tentativo di immaginare una comunità nuova, più consapevole dei suoi limiti, capace di accogliere chi resta, chi parte, chi torna e chi arriva. Ma per farlo, serve spezzare il ciclo del giudizio permanente. Serve liberarsi dell’arroganza di chi si crede giudice e padrone della verità. Serve un atto di umiltà collettiva, una disponibilità al dialogo, un’etica della convivenza civile.

Restare non può essere una prigione, e nemmeno una medaglia al petto. Deve essere una scelta consapevole, aperta, generosa. E solo così, forse, potrà diventare l’inizio di qualcosa di nuovo.

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