C’è chi ancora si chiede se Guardia Sanframondi sia davvero in crisi. Ma solo chi vive appeso ai volantini delle sagre, alle presentazioni a puntate di libri e ai selfie istituzionali può non vedere le crepe – ormai voragini – che attraversano la comunità. La risposta è semplice, brutale, innegabile: sì, Guardia è malata. Gravemente. E non da oggi. Ma guai a parlare di responsabilità. Apriti cielo! La politica locale – chiamarla “classe dirigente” sarebbe come definire un gregge una squadra di strateghi – si indigna, si offende, si rifugia dietro il paravento del “è colpa di chi c’era prima”, del “siamo tutti sulla stessa barca”. Peccato che la barca affondi da anni, e loro siano gli unici ad aver remato nella direzione sbagliata, con forza, convinzione e una buona dose di cieca presunzione.

La recidiva, qui, è diventata sistema. Gli stessi nomi, le stesse facce, le stesse strategie fallimentari si ripetono da trent’anni a questa parte, come in una stanca replica di provincia. Torneranno, puntuali, sul luogo del delitto: il paese. Con la faccia tosta di chi ha contribuito al disastro, prometteranno “novità” e “cambiamento”. E lo faranno con il tono solenne di chi crede che basti cambiare qualche tubatura arrugginita o mettere un cartellone sulla facciata del Municipio per invertire il declino. Ma la realtà non si cancella con un cartellone pubblicitario.

E mentre il paese langue, nelle retrovie si muovono già le pedine della prossima partita elettorale. La campagna è iniziata, sottotraccia, come sempre: cene carbonare in agriturismi isolati, incontri notturni nelle campagne, strette di mano al buio e promesse sussurrate. Il teatro delle alleanze si prepara, i patti si tessono lontano dagli occhi della gente, come se la democrazia fosse un affare da trattare in privato, tra iniziati. E il copione? Sempre lo stesso. Perché alla fine, quando si alzerà il sipario, sul palco ritroveremo gli stessi attori: i soliti nomi riciclati, le solite facce imbolsite dal potere, le solite promesse già tradite. E tra questi, naturalmente, anche il sindaco uscente, pronto a riproporsi con l’aria di chi non ha alcuna responsabilità nel disastro che ha amministrato. Come se cinque anni di nulla – o peggio – fossero un curriculum da rivendere, non da nascondere.

A fare da eco, i soliti opinionisti da bar: grandi esperti di tuttologia, seduti sulle panchine davanti al Comune, con il curriculum di una vita passata a commentare senza mai agire. Sono loro i “cani da guardia” dell’immobilismo locale: abbaiano al cambiamento, difendono lo status quo, raccontano la favola bella di un paese “ricco di cultura”, mentre le saracinesche chiudono, i giovani scappano e le strade si svuotano.

E poi ci sono le “Vinalia”, il carnevale delle illusioni. Ogni anno si recita il solito copione: degustazioni, brindisi, passerelle e autocelebrazioni. Ma nessuno ha mai spiegato quale sia la strategia, l’obiettivo, la direzione. È come curare una febbre alta con un cerotto. Una manifestazione fine a sé stessa, senza investimenti, senza visione, è solo una giostra che gira a vuoto. E chi la ripropone con ostinazione – ignorando i risultati nulli – dimostra una pericolosa negazione della realtà. In altri contesti, lo chiamerebbero disturbo mentale.

Nessuno lo ammetterà mai: oramai Guardia è il malato della valle Telesina, ma il male non è piovuto dal cielo. Ha nomi e cognomi, ha sigle elettorali, ha slogan sempre uguali, ha manifesti patinati appesi a muri che cadono a pezzi. E se la comunità non troverà il coraggio di tagliare i ponti con queste élite parassitarie, non ci sarà rinascita, ma solo agonia lenta. Un paese che continua a credere ai suoi illusionisti è un paese che si condanna da solo.

È tempo di rompere il cerchio, di alzare la voce, di voltare le spalle a chi ha trasformato una terra di potenzialità in una vetrina polverosa. Non possiamo più permetterci di essere governati da dilettanti della domenica travestiti da salvatori. La verità è questa: o alle prossime elezioni ci liberiamo di loro, o ci divoreranno. E lo faranno brindando, ancora una volta, alle “eccellenze locali”. Mentre loro si accordano al buio nelle campagne, preparando l’ennesimo ricambio a somma zero, il paese reale chiede solo una cosa: aria nuova. Quella vera, non quella promessa tra un calice e una stretta di mano segreta.