Quando non scrivo può dipendere da due motivi. Il primo è naturale e del tutto evidente: non ho voglia. Il secondo, altrettanto chiaro, è la totale consapevolezza dell’inutilità di farlo: scrivere, intendo. Perché hai voglia a stropicciare occhi e orecchie. Tutto quello che vediamo e sentiamo a Guardia e non solo è reale: sta accadendo davvero, qui e adesso. E non è creato dall’intelligenza artificiale, ma solo dalla stupidità umana. Di più, dall’idiozia. Altissima e purissima, come l’acqua della pubblicità.
Facciamo un ripasso, ma se vi annoia potete saltare direttamente al finale.
Ho sul groppone quasi settant’anni di certezze che mi dicono che le cose non cambieranno mai. E quindi, mi chiedo, perché continuare a grattugiarsi i cabassisi e a inondarsi di bile e fiele, per ribadire nei miei scritti ciò che è chiaro a ogni guardiese, a chiunque non viva in una caverna? Non sarebbe più sano stordirsi di Pink Floyd e cullare cuore e anima con cose belle — fossero anche solo ricordi — piuttosto che continuare a infilarsi in questa discarica morale chiamata “paese”?
Eppure, nonostante la logica spietata di questo “perché”, ogni volta ci ricasco. Ricomincio. Almeno fino a quando non interverrà il Motivo Uno a dirimere la questione in via definitiva. E ricomincio da Guardia, e comincio con il dire che è una stronzata colossale pensare che, per il bene della comunità, si debbano mettere da parte le incomprensioni persino con la peggior feccia che popola questa scena tragicomica. Ce lo dicono i soliti “scienziati della democrazia”: il dialogo prima di tutto! Ma con chi? Con quelli che da quarant’anni amministrano male, vivono bene e si autoproclamano salvatori della patria mentre la patria affonda?
La realtà — ben più squallida delle fiabe istituzionali — è che chi ha gestito (male) questo paese, quasi sempre appartenente alla suddetta feccia, continua a farlo perché il cittadino medio di Guardia — per motivi che tutti conosciamo ma nessuno dice ad alta voce — non sceglie mai la novità, né chi ha dimostrato di saper fare, né i giovani che arrancano. No. Sceglie chi già detiene il potere, perché anche lui, in piccolo, un potere ce l’ha. E ha la stessa esigenza: che tutto resti esattamente com’era e com’è. Non la scelta giusta, ma quella conveniente. Non l’alternativa, ma la garanzia che nessuno tocchi i suoi piccoli privilegi.
Il cambiamento? Solo al cinema. Il cambiamento esiste solo nei film o nel cuore di qualche meraviglioso illuso come chi scrive, che continua a crederci recitando — suo malgrado — la parte dell’eccezione utile a ribadire la regola. Chi conta davvero, nel frattempo, ingrassa. Sono i soliti noti, grassi e rubicondi, che si fanno beffe di quel Cristo al quale dicono di ispirarsi. Ma se Cristo nascesse oggi, li butterebbe fuori dal tempio a calci nel culo, uno per uno.
Nei miei scritti non dico niente di nuovo, certo. Ma si sa: io ribadisco solo banalità. Eppure un tempo ci ho creduto anch’io, quasi ateo e poco incline alla speranza, prima che questi personaggi — sempre gli stessi, da quarant’anni — si affrettassero a ripristinare i vecchi ruoli, riportando tutto alla misera, immutabile, tranquillizzante normalità di prima. Se poi per queste idee vi piace definirmi “uno capace solo di criticare”, fatelo pure. Chissenefrega. Lo sapete già: io non cerco approvazione, e non cerco poltrone. E sono certo che, secondo alcune menti raffinate di Guardia, potremmo essere in tanti a meritare l’etichetta. Troppi. E non è che nella finta opposizione le cose vadano molto meglio. Li guardo — alcuni con stima, per carità — ma li vedo comunque recitare nella stessa commedia. Stesso copione, stessi compromessi, stesse dinamiche. La terza via? Sì, finché non rischiano di vincere. Perché vincere non basta e non serve a un cazzo se il prezzo è l’anima. O il senso di ciò che si era. O si fingeva di essere.
Il momento è ora, dicono al bar. Ma era anche ieri. E l’altro ieri. C’è un momento nella vita di ogni comunità in cui bisogna chiamare le cose con il loro nome. Per Guardia, quel momento è arrivato da un pezzo. Ma noi giriamo intorno al problema, sussurriamo al bancone ciò che non osiamo dire in piazza, ci lamentiamo nei bar di ciò che poi tolleriamo nelle urne.
La cosa più sconcertante non è il fallimento di questa o quella amministrazione (quello è evidente: progetti fantasma, degrado, zero visione strategica, gestione dell’ordinario ridotta al minimo sindacale). La cosa più sconcertante è la capacità dei cittadini di non vedere. O peggio: di vedere e accettare. Come se fosse inevitabile. La rassegnazione, a Guardia, ha cambiato nome: ora si chiama “fedeltà”. L’abitudine si spaccia per “tradizione”. La mediocrità viene presentata come “il meglio che si possa fare”. Come se amministrare un paese di poche migliaia di abitanti fosse un’impresa soprannaturale, e non una semplice questione di competenza, trasparenza e buon senso.
Il re è nudo. Ma tutti lo applaudono. Perché è così difficile ammettere il fallimento di queste persone? Perché significherebbe riconoscere che anche noi abbiamo delle responsabilità. Che per troppo tempo abbiamo scelto la via comoda del “si è sempre fatto così”, invece di pretendere qualcosa di diverso. E poi c’è la paura. La più provinciale, la più soffocante: quella di essere etichettati come disturbatori della quiete pubblica. In un paese piccolo, alzare la voce ha un prezzo sociale. È più facile lamentarsi su WhatsApp che candidarsi. È più comodo criticare a bassa voce che esporsi in piazza. E allora va in scena il ricatto morale più subdolo: “Eh, ma almeno qualcosa lo fanno…”. Come se il “qualcosa” fosse un favore personale, un bonus. Come se non fosse il minimo sindacale per chi è stato eletto a gestire la cosa pubblica. In questo paese abbiamo messo l’asticella così in basso che basta non inciampare per sembrare giganti. E intanto ci dimentichiamo cosa significa governare bene: avere una visione, coinvolgere i cittadini, innovare, attrarre investimenti, valorizzare il territorio.
Perché le alternative esistono. Siamo noi che non le vogliamo. “Eh ma chi lo fa, se non loro?”. Questa è la seconda frase più tossica dopo “almeno qualcosa lo fanno”. Come se la politica fosse una vocazione mistica, riservata ai pochi che si sacrificano per noi. Come se l’alternativa fosse necessariamente peggiore. Ma le alternative esistono sempre. Nei giovani che hanno studiato, lavorato, vissuto altrove. Negli imprenditori, nei professionisti, nei cittadini. In chi ha qualcosa da perdere, e proprio per questo sarebbe disposto a fare le cose seriamente. Il problema non è la mancanza di alternative. È la nostra pigrizia nel cercarle. E la nostra viltà nel sostenerle.
Il re è nudo. E va detto ad alta voce. Va detto ora, anche se ormai è tardi. Va detto con la consapevolezza che, se non cambiamo noi, nessuno cambierà per noi. E sì, potete continuare a chiamarmi “quello che critica soltanto”. Tanto qui quelli che fanno, hanno già fatto abbastanza danni.