In un’epoca in cui la disillusione sembra aver preso il posto della partecipazione, parlare di politica tra i giovani — e soprattutto tra i giovani di Guardia — sembra quasi un esercizio nostalgico. Eppure, a ben guardare, le cose non stanno proprio così.
A Guardia, nel bene o nel male, la politica è ancora popolare tra i giovani. Non tra tutti, certo, ma tra molti più di quanti ci si sia abituati a pensare. Il racconto che spesso ci facciamo — giovani apatici, disinteressati, chiusi nei loro mondi digitali — è comodo, rassicurante, ma in larga parte falso. Esiste, eccome se esiste, una gioventù guardiese che ha a cuore la cosa pubblica, che osserva, critica, commenta. Ma che raramente viene ascoltata.
Checché se ne dica, c’è una parte della gioventù guardiese che non si riconosce nei simboli vuoti, nelle indignazioni prefabbricate, nelle campagne politiche da tastiera. Questi ragazzi e ragazze vogliono di più, hanno a cuore le sorti della propria comunità. Vogliono contenuti, vogliono confronto, vogliono la possibilità di sbagliare ma anche di imparare. Non cercano slogan, cercano strumenti. Il problema, semmai, è che questi giovani sono delusi. Da una politica che si mostra ipocrita, elitaria, autoreferenziale. Una politica che non sa più parlare la loro lingua, che non li coinvolge, che li guarda con sospetto o peggio ancora li ignora. I pochi giovani che si occupano attivamente di politica sembrano più impegnati ad accreditarsi presso qualche figura nazionale o a gestire profili social patinati, piuttosto che a costruire un impegno vero, concreto, sul territorio.
A Guardia manca un vero progetto generazionale. Mancano spazi di coinvolgimento reale. Gli strumenti della democrazia partecipativa sono, nella migliore delle ipotesi, trascurati. Non esistono consulte giovanili efficaci, assemblee aperte, meccanismi trasparenti per ascoltare le nuove voci. Eppure quelle voci esistono. Solo che, spesso, non gridano. Osservano, riflettono, aspettano. Aspettano la vera politica, quella che interessa a loro, fatta di esposizione, di confronto, di rischio. Quella che si fa mettendo le idee sotto il fuoco incrociato delle critiche, costruendo soluzioni con chi la pensa diversamente, accettando la possibilità di cambiare idea. Non è una bolla autoreferenziale, la loro, non è un salotto buono, e non è nemmeno un palco da cui pontificare. È un’arena pubblica, imperfetta ma vitale – per ora ristretta sui social – dove chiunque può parlare e chiunque deve ascoltare. Guardia ha bisogno di questa gioventù. E questa gioventù ha bisogno di Guardia. Perché se la risposta politica alla crisi di senso che sta attraversando questa comunità è l’adattamento passivo, l’abbandono, o peggio ancora il disinteresse soddisfatto, allora il problema non è la politica: il problema siamo noi.
E poi, certo, siamo pur sempre a Guardia. Qui il degrado non è solo urbanistico, ma profondamente morale e sociale. Qui, se per caso sbuca un giovane capace, preparato, magari pure onesto e con idee sue, non c’è da preoccuparsi: ci pensa subito il sistema a “valorizzarlo”. Con un incarico, un contentino, una pacca sulla spalla, e — voilà — il giovane promettente diventa il giovane allineato. Come da tradizione. Perché il vero talento, da queste parti, non è pensare fuori dagli schemi, ma entrare nei giochi giusti senza fare troppo rumore. E possibilmente con il sorriso di chi ha capito come funziona il mondo.
È tempo di costruire luoghi — fisici e simbolici — in cui il dibattito sia possibile. Di creare spazi in cui i giovani possano dire la loro senza essere etichettati, in cui le idee vengano sfidate e non filtrate. È tempo di smettere di chiedere ai giovani di “adeguarsi” e iniziare a chiedere loro di guidare. Magari sbaglieranno. Ma almeno avranno avuto la possibilità di provarci. Perché la politica, quella vera, non è mai una comfort zone. È una chiamata al coraggio.
E ora che le prossime elezioni amministrative si avvicinano, sappiamo bene cosa ci aspetta: i soliti riti, le solite facce, le solite dinamiche. Qualche “nuovo” nome, già perfettamente addestrato alle vecchie logiche. Le grandi promesse, i piccoli compromessi, i giochi già fatti. È qui che si gioca la partita vera. È qui che chi si è sempre lamentato, chi ha sempre criticato, chi si sente escluso o semplicemente diverso, deve decidere: vuole continuare a commentare da fuori, o vuole costituirsi come una vera alternativa? Non serve un miracolo. Serve coraggio. Serve organizzarsi, esporsi, rischiare. Serve l’ambizione, anche scomoda, di rompere davvero il sistema che ha bloccato questo paese per decenni. Non è un invito. È una sfida.