Un tempo, a Guardia Sanframondi, si parlava con le mani sporche di terra. Si parlava poco, per la verità. Il vino lo si beveva a tavola, col pane duro e il formaggio stagionato, non in calici da degustazione roteati come turbini d’ego. Oggi, invece, a Guardia non si beve: si “degusta”, si “valuta la persistenza”, si “interpreta il territorio” come se fosse un’opera di arte contemporanea. Benvenuti nell’era degli sciccosi.

Ma chi sono gli “sciccosi”? Sono la nuova classe dirigente (e digerente) locale. Ex figli della terra che si sono reinventati custodi del gusto, curatori del terroir, teorici della fermentazione lenta, spesso con un passato – o un presente – di impegno politico, rigorosamente progressista, che oggi si concilia con bottiglie da 30 euro in su e vernissage in cantina. La metamorfosi è compiuta: dal contadino al sommelier, dall’attivista al degustatore, dal circolo Arci al wine-tasting con flûte di vetro boemo. Il tutto in nome della valorizzazione del territorio, che nel gergo sciccoso significa una cosa sola: rendere l’identità locale appetibile per turisti con portafogli pesanti e coscienza leggera.

Negli ultimi anni, la classe politica e dirigente di Guardia si è rifatta il trucco ideologico: più politicamente corretta, più attenta alla forma che alla sostanza. Radicali, sì, ma solo di facciata. Estetizzanti, elitari, affascinati dal concetto di inclusione esclusiva: quella che accoglie tutti, purché abbiano letto Pasolini, bevuto Brunello Montalcino Le Macioche e votato a sinistra con il cuore (ma con il portafogli a destra). Amano il vino, l’arte e il biologico, ma solo se serviti con stile e status. Gli orti urbani sì, ma col design da copertina. Il sociale sì, ma con cena placée e catering etico-chic.

Intorno a loro, ruota un circo elegante di eventi “culturali”: cene eleganti fra i filari seduti sulla paglia, presentazioni di libri che nessuno legge, mostre d’arte contemporanea allestite tra botti e barrique, proiezioni di film con più pathos che spettatori. E naturalmente, dibattiti sulla sostenibilità, purché seguiti da una cena gourmet, con cavolfiore in tre consistenze e agnello del Fortore allevato ascoltando musica barocca. Ma la contraddizione più evidente è (come spesso accade) anche quella meno ammessa: molti degli sciccosi di oggi erano i rivoluzionari di ieri. Gente che predicava la lotta di classe e oggi colleziona weekend nell’Alta Marca Trevigiana per “studiare” il Prosecco. Citano Gramsci e Pasolini tra un calice e l’altro, parlano di inclusione mentre selezionano con cura gli inviti per la prossima degustazione “privata ma aperta a tutti” (tradotto: solo per chi ha il portafoglio e l’abbigliamento adatto).

La vera tragedia di questa sindrome “sciccosa” non è l’estetismo, né la Falanghina sacralizzata. È il progressivo svuotamento della cultura popolare guardiese, trasformata in prodotto di lusso, addomesticata, sterilizzata. I giovani guardiesi – quelli veri, non i neorurali – si trovano tagliati fuori da un mondo che pretende radici ma parla un linguaggio da salotto milanese.

Il rischio? Che Guardia Sanframondi diventi una scenografia per il turismo esperienziale: un posto dove nulla è finto, ma tutto è teatralizzato. Dove si celebra la tradizione, purché servita con finger food e musica jazz. Eppure, basterebbe poco. Basterebbe un po’ di autoironia, quella qualità che agli sciccosi sfugge come un retrogusto troppo amarognolo. Basterebbe riconoscere che si può valorizzare il territorio senza trasformarlo in showroom, che si può amare la cultura senza farne una passerella. Guardia merita certamente di più di questa nuova nobiltà di ritorno, senza titoli ma con tante tessere di partito e una libreria ben esposta sul profilo Facebook. Merita una comunità vera, non un club esclusivo travestito da laboratorio sociale.

Nel dubbio, comunque, brindiamo. Ma facciamolo con un bicchiere di vetro spesso, senza parlare troppo di persistenze. E ricordiamoci che il vino – come la cultura – ha senso solo se condiviso. Senza troppi filtri. Né sociali, né fotografici.