C’è una sciatteria, una trascuratezza, che si annida nei dettagli delle strade, nei muri scrostati, nelle piazze svuotate, nei negozi che chiudono, nella cartellonistica fuori luogo e nell’edilizia selvaggia. È una sciatteria che non è solo estetica, ma morale, culturale. L’ho vista crescere negli anni, l’ho respirata, subita. E oggi — o meglio, da qualche anno — provo a raccontarla: non da osservatore neutrale, ma da figlio di questa comunità. Un reportage involontario fatto sulla mia pelle. Parlo di Guardia Sanframondi, ma potrei parlare di mille altri paesi d’Italia.

Guardia, oggi, è un emblema. È un paese sconcio, nel senso più tragico del termine: offeso nel suo paesaggio, deturpato nella sua bellezza naturale e urbana. Le colline, un tempo dolci e ordinate, sono state invase da costruzioni sgraziate, senza logica né rispetto per l’ambiente. Il centro storico — che dovrebbe essere custode di memoria, bellezza e identità — è diventato un guscio semi-vuoto, animato solo a tratti da iniziative estemporanee che sembrano più pensate per attrarre turisti che per restituire senso alla comunità. Le strade, piene di buche e cartacce, sono lo specchio fedele di un abbandono che non è solo materiale. E da questo degrado discende un malessere più profondo, che intacca l’umore, il gusto, il carattere degli abitanti. Le persone si adeguano, si uniformano, interiorizzano il brutto come se fosse l’unica opzione possibile. Come se il brutto, l’artefatto, l’improvvisato, l’incompleto si fossero sedimentati anche nell’immaginario collettivo. La bellezza non è più considerata necessaria. L’armonia non è più un valore. Il paesaggio non è più uno specchio dell’anima, ma un fastidio, un peso, qualcosa da piegare ai propri interessi immediati.

Parlare del proprio paese natale è un esercizio delicato. Si rischia il sentimentalismo, la nostalgia, l’idealizzazione. Ma anche il suo contrario: il disprezzo, la rabbia, il rifiuto. In questo caso, il racconto che da molto tempo propongo è qualcosa di diverso. È un reportage involontario, maturato giorno dopo giorno sulla mia pelle, senza intenzione letteraria o sociologica, ma con la forza di chi guarda ciò che ama disfarsi sotto i propri occhi. E decide di non tacere.

Guardia, oggi, è un luogo che ha perso la sua grazia antica. Quella grazia semplice e autentica che un tempo si respirava nei gesti lenti, nei dialoghi tra vicini, nella sobrietà delle case, nella cura dei dettagli. Quella grazia fatta di misura, di silenzio, di rispetto. Oggi tutto questo sembra evaporato. Il paese appare teso, cupo, nervoso, come se ogni relazione fosse diventata un confronto, ogni differenza una minaccia. Tutto è calcolo, ritorno, scambio. Le relazioni si fondano su vantaggi e ricatti impliciti. La vita pubblica è diventata teatrino, la vita privata un campo di battaglia. Eppure, paradossalmente, Guardia è anche pronta a commuoversi per ogni cosa: basta un evento tragico, una storia triste, una notizia virale, perché scoppi l’emotività collettiva. Ma è una commozione narcisistica, che serve più a sentirsi buoni che a fare del bene. È un pianto sterile, che non si traduce in azione, che non si trasforma in empatia vera.

In questa deriva, la politica — intesa come dottrina dominante — ha fatto da regista silenzioso ma onnipresente. È lei che, direttamente o indirettamente, detta i costumi, la “way of life”, gli oggetti del desiderio, le categorie del successo. E, insieme alla sua gemella, l’Indifferenza, ha finito per divorare ogni traccia di cultura autentica, lasciandoci in cambio una subcultura gridata, vuota, caricaturale.

La corruzione qui non è solo quella della classe politica o delle istituzioni: è una corruzione diffusa, intima, quotidiana. Non quella che si scopre nei grandi scandali giudiziari, ma quella che attraversa ogni strato della società. La piccola raccomandazione, l’accordo sottobanco, il favore restituito, l’abitudine a eludere le regole, a cercare scorciatoie, a piegare il pubblico al privato. Una mentalità mafiosa che si insinua nei rapporti, nei compromessi, nei favoritismi, nel clientelismo accettato come norma. Un’anarchia sterile, senza più ironia, senza più intelligenza collettiva. Senza più regole condivise, né valori. Un’identità che si è fatta inconsistente, come se avessimo smesso di sapere chi siamo.

Guardia è diventata, infine, una comunità senza misericordia e senza anima. E questo non è solo un problema locale: è il sintomo di qualcosa che riguarda l’Italia intera. Una nazione che ha abbandonato l’idea di futuro, che si è lasciata sedurre dal consumo, che ha smarrito la grazia — non quella estetica, ma quella civile, quella profonda, quella che ha a che fare con il rispetto, la bellezza, la sobrietà, la giustizia.

L’altro giorno mi è capitato di assistere in TV a uno scambio di battute in un talk show fra un esponente di sinistra e una tizia della Lega: il primo insisteva perché la seconda prendesse una posizione netta riguardo allo sterminio di Gaza, mentre la seconda sviava tirando in ballo Hamas, il 7 ottobre e la propaganda; all’ennesima accusa di mancanza d’empatia davanti alla morte di migliaia di bambini, lei infine ha sbroccato, dicendo di essere mamma e buttando tutto in caciara per togliersi dall’imbarazzo. Per quanto paradossale agli occhi di un cittadino capace di intendere e volere e non accecato dalle fette di prosciutto della tifoseria politica, ho subito pensato che la situazione attuale, invece, è chiarissima: l’Italia è un paese sotto ricatto. Da Israele per questioni di cybersicurezza e per volere americano; dagli USA (prima Biden e poi Trump) per politica estera, Ucraina, gas e dazi; dall’Europa, dai mercati e dalle lobby per il debito pubblico; dalla Libia per i flussi migratori. Da questo dipendono le esternazioni improbabili dell’attuale governo, le dichiarazioni ondivaghe e demenziali dei ministri, le supercazzole degli esponenti a metà strada fra il marmocchio in età prescolare e il tossico sotto acidi. Non sono così rincoglioniti e stralunati come possono sembrare — non fino a questo punto, almeno, spero — semplicemente non possono fare altrimenti. Altro che sovranismo, altro che “non sono ricattabile!”: Giorgia è la donna, madre e cristiana più ricattata del globo terracqueo, e spesso senza nemmeno bisogno di riceverlo, il ricatto vero e proprio; anticipando persino la richiesta. Ma questo problema non appartiene alla singola fazione politica o alla coalizione al comando, bensì al Paese stesso, quindi indipendentemente da chi lo governi. Di conseguenza, l’opposizione fa benissimo a evidenziarne l’impotenza, le lacune e la doppia morale (la critica al potere non è mai abbastanza), ma, a ruoli invertiti, non potrebbe fare granché di diverso. Finché non conti nulla puoi dire quel che ti pare, perfino ciò che è giusto, allo scopo di attrarre l’elettorato; quando sarai al governo, dovrai trovare il modo di far digerire al popolo le scelte imposte dai ricattatori. I metodi sono i soliti: sofismi, slogan tormentoni, porzioni selezionate di verità, dati decontestualizzati ed, ovviamente, delegittimazione dell’avversario. Tutto allo scopo di vincere le elezioni e farsi ricattare. Un comportamento che non riesco più a capire, da quando ho strappato via le fette di prosciutto dagli occhi. Chissà cosa accadrebbe se un giorno lo facessero in tanti…

Oggi, invece, tornando a Guardia, non basta più indignarsi. Non basta neanche denunciare. Perché ciò che più fa male, in questa lunga discesa, è la perdita dell’identità. Non nel senso nostalgico o campanilistico, ma nel senso profondo: la consapevolezza di chi siamo, cosa vogliamo essere, quale posto vogliamo occupare nel mondo. Un paese senza identità è un paese senza anima. E senza anima non si può costruire nulla. Né futuro, né comunità, né felicità.

Serve un nuovo sguardo. Serve ricominciare dai luoghi e dalle persone, dalle parole giuste, dalla memoria, dalla responsabilità. Serve, forse, tornare a vergognarsi un po’. Ma non per ritrarsi. Per reagire.

Non scrivo tutto questo per condannare questo o quello, questa o quella amministrazione. Né per cercare consolazione. Scrivo per scuotere, se possibile. Per dire che un’alternativa c’è. Ma richiede uno sforzo collettivo: ricominciare dallo sguardo, dall’educazione alla bellezza, dalla cura dei luoghi, dalla sobrietà come stile di vita, dalla giustizia come valore non negoziabile. Serve una nuova idea di comunità, fondata non sull’appartenenza passiva, ma sulla responsabilità attiva.

Servono persone che sappiano dire no alle scorciatoie, sì alla coerenza. Persone che abbiano il coraggio di farsi guardare storto, pur di non tradire sé stesse. E serve, come dicevo prima, infine, una nuova vergogna. Ma non quella tossica che paralizza. Piuttosto quella vergogna sana, costruttiva, che ci spinge a migliorare. A rifiutare la bruttezza. A non accettare più l’inaccettabile. A pretendere di più. Da noi stessi, prima che dagli altri.