A cinque anni dall’insediamento dell’attuale amministrazione, è tempo di tirare le somme. E il bilancio, a voler essere onesti, è desolante: Guardia Sanframondi non ha conosciuto alcun cambiamento significativo. Nessuna svolta, nessun progetto davvero incisivo, nessuna trasformazione sul piano delle idee, dei servizi, della visione futura. E ciò che pesa di più è la sensazione diffusa che non si sia nemmeno provato a cambiare.

A scanso di equivoci, sgombriamo il campo dalla polemica sterile. Questo non è un attacco personale né una requisitoria ideologica. Non si tratta di negare che vi siano stati, in alcuni momenti, impegno, disponibilità e correttezza nei rapporti con i cittadini. È innegabile che chi in questi cinque anni ha gestito Guardia abbia mantenuto toni pacati (anche troppo), spesso persino rispettabili sul piano umano. Ma il giudizio politico non può limitarsi allo stile: deve misurarsi sui risultati.

E i risultati, francamente, non ci sono stati.

Ricordiamo ancora il programma elettorale di cinque anni fa, denso di propositi ambiziosi: rilancio del centro storico, valorizzazione turistica, modernizzazione dei servizi, sostegno alle attività produttive. Promesse che oggi suonano come echi lontani di un’epoca di ottimismo ormai tramontata. Il centro storico continua il suo lento declino, con edifici storici che cadono a pezzi mentre gli annunci di “prossimi interventi” si susseguono con la puntualità di un rito stagionale. Quante volte abbiamo sentito parlare di “progetti in fase di definizione” per il recupero del patrimonio architettonico, di censimento? A questo punto, la fase di definizione è diventata una condizione esistenziale permanente.

Passeggiare per Guardia oggi significa attraversare un museo dell’immobilismo. Lo stesso degrado degli anni passati si è semplicemente allargato, acquisendo nel frattempo lo status di “elementi caratteristici del paesaggio urbano”. In alcune aree – dalla periferia fino ad angoli del centro storico – non è stato scalfito da cinque anni di amministrazione. Anzi, in alcuni casi sembra essersi sedimentato, come se fosse diventato parte integrante dell’arredo urbano.

La qualità della vita è rimasta sospesa in un limbo fatto di piccoli disagi quotidiani mai risolti: i servizi pubblici che mantengono quella venerabile lentezza burocratica che contraddistingue la tradizione italiana. Nel frattempo, i giovani continuano ad andarsene, lasciando dietro di sé un paese sempre più grigio, non solo nel colore delle pietre, ma nell’energia e nelle prospettive.

Guardia è rimasta ferma, sospesa in un eterno presente che non è né declino né rinascita, ma un galleggiamento stanco, fatto di piccoli spostamenti laterali, dove si cambia qualcosa per non cambiare nulla. Nessun progetto strutturale avviato, nessuna proposta culturale all’altezza, nessuna visione urbanistica o economica in grado di immaginare – e costruire – il futuro.

Qualcuno dirà che il contesto è difficile, che le risorse mancano, che la burocrazia blocca, che una parte della cittadinanza ha remato contro. Sarà anche vero, ma cinque anni con una maggioranza solida e un buon consenso iniziale non possono giustificare il nulla. L’impressione è che non siano mancati solo i mezzi, ma anche le idee, il coraggio e la volontà di incidere davvero.

E qui si arriva al nodo più profondo – e più grave – di questa vicenda: l’inadeguatezza della classe politica locale, un problema che non riguarda solo questa amministrazione, ma che si trascina da decenni. Guardia è prigioniera di un ceto dirigente mediocre, autoreferenziale, cooptato secondo logiche di fedeltà e appartenenza, non di merito o competenza. Un sistema chiuso, dove la selezione della classe amministrativa non avviene sulla base della qualità, ma della convenienza. E ogni volta che qualcuno ha provato a porre il problema, a suggerire percorsi di formazione o di rinnovamento, è stato ignorato, ridicolizzato, messo da parte.

Il risultato è sotto gli occhi di tutti: una politica che dura senza costruire, che occupa le stanze del potere ma non le usa per generare sviluppo. Una politica che gestisce, ma non governa; che parla, ma non agisce. Che si consuma nell’ordinario, senza mai sognare – e progettare – qualcosa di straordinario.

Per questo non è sufficiente cambiare sindaco o assessori. Serve ben altro: un rinnovamento culturale e civile, un’apertura al pensiero critico, alla progettualità, al futuro. Servono cittadini disposti a pretendere di più, a impegnarsi di più, a guardare oltre la rassegnazione. Servono idee, studio, visione. E servono, soprattutto, persone nuove: capaci, libere, motivate non dal tornaconto, ma da un autentico desiderio di far crescere questa comunità.

In definitiva, il vero fallimento dell’attuale amministrazione non è aver sbagliato, ma non aver nemmeno tentato di cambiare le cose. Non ha lanciato sfide, non ha costruito alternative, non ha gettato semi di futuro. È stata una gestione ordinaria in un tempo che richiedeva visione straordinaria.

E, come in ogni buona rappresentazione teatrale, dopo l’epilogo arriva il bis. È infatti quasi certo che a breve rivedremo gli stessi attori salire di nuovo sul palco, pronti a presentare una nuova sceneggiatura per i prossimi cinque anni. Ci diranno che “il lavoro non è finito”, che “sono stati gettati i semi” e che “ci vuole tempo per vedere i frutti”. L’ottimismo, a quanto pare, non è morto: ha solo cambiato forma, trasformandosi in una perenne promessa di futuro che, a ogni elezione, si rinnova, come un abbonamento scaduto ma che si continua a sperare di usare. Si ripresenteranno, forti della loro esperienza, che non è stata quella di cambiare il paese, ma di dimostrare che si può restare uguali a sé stessi per un intero mandato. E forse, questo, in fondo, è già un risultato.