Da diversi anni ormai la mia tastiera si concentra esclusivamente su Guardia Sanframondi, scrutando con occhio attento le dinamiche di questa comunità che conosco bene. E puntualmente, come una litania che si ripete – e sempre quando si avvicinano le elezioni -, arriva la domanda di chi mi legge: “Perché non ti candidi, invece di criticare sempre?”. La risposta è sempre la stessa, semplice quanto ferma: non ho alcuna intenzione di scendere nell’agone politico. Sono, per natura e per convinzione, uno spirito libero. E questa libertà è il mio bene più prezioso, quello che mi consente di guardare la realtà senza filtri di parte, senza dover rendere conto a questo o quel gruppo di potere. Ciò detto, a Guardia come la fai sbagli. Una volta che ti hanno affibbiato la targa, per me insignificante, allora non si scappa: se dici di preferire Tizio, ti dicono che ti sei allineato, ti hanno richiamato al dovere e alla fine torni a casa come i cani ammaestrati; se invece sei critico con Caio, ti accusano di essere un traditore e un disfattista. Intanto, traditore dillo a tua sorella. Ma non vi viene il dubbio che le motivazioni possano essere altre rispetto al carrierismo imperante di questa comunità e che non hai voglia di fare il birillo a cui ti riduce oggi la politica? Non vi viene il dubbio che ci possano essere altre cose a Guardia un po’ più importanti e più significative di quella stupida recita maggioranza/opposizione, destra/sinistra? E che si possa essere liberi di consentire e dissentire e più ancora di strafregarsene della politica corrente?

Ho sempre scelto la via più difficile: non attaccarsi al carro dei vincitori e nemmeno saltare su quello degli oppositori. Ma se poi vi dicessi, anzi vi ripetessi, che non voglio partecipare a questo giochino idiota e voglio essere giudicato solo per ciò che scrivo, che penso, che dico? È stupido ostinarsi a sventolare la bandiera in mezzo a tanti voltabandiera. Non parteggio per nessuno di coloro che oggi animano la scena politica locale, né per chi amministra né per chi fa opposizione. Preferisco mantenere quella distanza critica che mi permette di chiamare le cose con il loro nome, senza dover addolcire la pillola per compiacere questo o quello. Il mio obiettivo è diverso, forse meno appariscente ma non meno importante: fare luce sulle brutture e le storture che affliggono la nostra comunità. È un lavoro scomodo, lo so bene. È più facile voltarsi dall’altra parte, fingere che tutto vada bene. Ma qualcuno deve pur dire che il re è nudo, qualcuno deve pur alzare la voce quando vede sprechi, inefficienze, piccole e grandi ingiustizie che si consumano nell’indifferenza generale. Continuerò a scrivere, continuerò a porre domande scomode, continuerò a mettere il dito nella piaga. Non perché ami la polemica fine a sé stessa, ma perché credo profondamente che una comunità possa migliorare solo se ha il coraggio di guardarsi allo specchio senza indulgenze. Solo riconoscendo i propri errori si può sperare di correggerli. Perché nonostante tutto credo ancora nella politica. Questo è il mio contributo a Guardia Sanframondi: non le promesse di chi cerca voti, ma la voce libera di chi cerca la verità. E questa libertà, credetemi, non ha prezzo.

Ma c’è un momento nella vita di ogni uomo in cui la politica – quella cosa che ti ha formato, che ha nutrito i tuoi sogni di giustizia e cambiamento – si trasforma in qualcosa di irriconoscibile. Per me quel momento è arrivato guardando la mia Guardia, questo piccolo teatro del mondo dove si consumano le stesse tragedie e le stesse farse che vediamo ovunque. Qui, tra le nostre strade dove sono nato e che conosco da sempre, osservo il balletto quotidiano di chi fa politica. Non più per un ideale, non più per quella fede che dovrebbe animare chi sceglie di servire la comunità, ma per pura ambizione personale. Il carrierismo ha sostituito la vocazione, le aspettative individuali hanno preso il posto del bene comune.

Mi sgomenta questa politica. Mi sgomenta perché non riesco più ad appartenere ad alcuna ideologia politica. È come perdere una religione: per la politica, infatti, ci vuole fede, come per la religione. E quando la fede se ne va, resta solo il vuoto. Tuttavia, in un’epoca in cui la parola “politica” sembra evocare disillusione, distanza o addirittura diffidenza, è forse il momento di recuperare il suo significato più autentico e profondo. Politica è partecipazione. Politica è visione collettiva. Politica è la cura di ciò che è comune, la responsabilità di immaginare e costruire un futuro condiviso. In altre parole, tutto è politica. È politica la gestione del verde pubblico, come la tutela delle tradizioni popolari. È politica l’urbanistica, la mobilità, la cultura, l’accoglienza. È politica ogni scelta pubblica che impatta sulla qualità della vita dei cittadini. Anche ciò che, a prima vista, sembra appartenere alla sfera privata – la scuola dei nostri figli, il modo in cui si fa arte, i rapporti tra residenti – si intreccia inevitabilmente con la sfera pubblica e quindi con la politica. Perché sì, anche abitare è un atto politico. Aprire uno spazio artistico è un atto politico. Organizzare un festival, un laboratorio, una mostra, un’iniziativa civica è un atto politico. Ma lo è anche partecipare a un consiglio comunale, firmare una petizione, prendersi cura di una strada, una piazza o di una panchina. È politica persino il modo in cui ci salutiamo per strada, il rispetto che dimostriamo per l’altro, l’accoglienza che pratichiamo o rifiutiamo.

Guardia è oggi un laboratorio vivente di questi intrecci. Negli ultimi anni, questa comunità ha visto l’arrivo di decine di nuovi residenti stranieri: artisti, creativi, liberi pensatori, sognatori concreti. Molti di loro hanno scelto di lasciare le grandi città europee e nordamericane per stabilirsi qui, tra le colline sannite, attratti dal fascino dell’autenticità, dalla lentezza, dalla bellezza grezza del luogo. Non è un caso se sempre più spesso si sente parlare di Guardia come un centro di fermento culturale, con atelier, esposizioni, performance, residenze artistiche. Tuttavia, in tempi in cui tutto deve essere raccontato con l’iperbole – o sei un disastro o sei un esempio da Nobel – anche i piccoli paesi come Guardia finiscono schiacciati dentro narrazioni che non li rappresentano. Guardia non è né l’inferno da cui fuggire né il paradiso da riscattare. È un paese vero, complesso, fatto di persone reali che vivono, lavorano, resistono. Che non cercano miracoli, ma normalità. E proprio per questo meritano rispetto. Da anni ormai, ogni volta che si parla di Guardia – e più in generale di tante realtà del Sud – lo si fa con toni tragici o salvifici: c’è chi la descrive come una terra spacciata, abbandonata, da redimere; e chi, dall’altro lato, la dipinge come una gemma nascosta da promuovere con l’hashtag giusto. Entrambi gli sguardi, seppure opposti, sono viziati dalla stessa superficialità: raccontano Guardia senza conoscerla, senza viverla, senza capirla.

La verità è che Guardia non ha bisogno di missionari né di profeti. Non cerca redenzione, ma serietà. La chiusura recente del liceo scientifico, ennesimo colpo a un sistema di servizi che si va sfilacciando, non è solo un dato locale, ma il segno di un problema più ampio che riguarda tutto l’Appennino, tutto il Mezzogiorno. Ma reagire a questi fatti con il solito coro del “tutto va male”, “la colpa è di quelli che c’erano prima” o con la promessa elettorale dell’“adesso cambierà tutto” significa mancare ancora una volta il punto. Ecco perché oggi prima di tutto servirebbe una nuova narrazione, sobria e onesta. Una narrazione che non commuova ma coinvolga. Che non cerchi applausi, ma soluzioni. Che parta da chi Guardia la vive ogni giorno, senza riflettori, tra difficoltà e piccoli successi. Perché è lì, in quella fatica quotidiana, che si misura la vera forza di una comunità. E se davvero vogliamo parlare di rivoluzioni, forse quella più radicale – in un tempo in cui tutto viene gridato e spettacolarizzato – è proprio la normalità: avere scuole funzionanti, servizi dignitosi, opportunità per i giovani. Tutto qui. Ma sarebbe già moltissimo.

Ma ciò che mi sgomenta ancor di più è la regressione umana che si consuma dietro la facciata della politica. Un tempo la piazza era un luogo di confronto, anche acceso, ma sinceramente vissuto. Oggi è diventata un’arena dove si combatte per il predominio personale, senza alcun pudore, senza alcuna visione. Se parliamo di Guardia poi, qui la politica è tornata infantile, tribale: si appartiene a un gruppo non per condivisione di ideali, ma per alleanza opportunistica, come in un branco. Il confronto è sostituito dal sospetto, il dissenso diventa tradimento, la critica è punita con l’esclusione. Non c’è più spazio per la complessità, per la sfumatura, per la domanda scomoda: tutto è ridotto a tifoseria, a slogan, a fedeltà cieca. Questa è la vera sconfitta: non la corruzione del potere, che è antica quanto il mondo, ma la scomparsa del rispetto reciproco, della capacità di ascoltarsi come cittadini, come esseri umani. Si parla di comunità, ma si agisce da clan. Si invoca il popolo, ma si amministra con la paura della firma, con la propaganda, con l’isolamento di chi dissente. È una regressione della coscienza civile, un ritorno all’istinto contro la ragione, alla pancia contro il pensiero. La politica, per me, è altro: è il rapporto che ho con gli altri, il rispetto di ogni essere umano. Oggi, invece, la trovo spregevole e immonda, come tutto ciò che attiene al potere. Cambia i nomi, resta il meccanismo. Come già ho avuto modo di dire, viviamo in un tempo in cui la psichiatria ha preso il posto della politica. Siamo tutti pazienti psichiatrici di un unico, grande ospedale chiamato Guardia, diviso per diagnosi e conti in banca. Ognuno nel suo reparto, ognuno con la sua etichetta. Per questo, non riesco a fidarmi di nessuno. Resto anarchico nel mio sfuggire a ogni etichetta, a ogni falsificazione della realtà esistente. Eppure, paradossalmente, ancora mi piace la politica: ma senza più l’utopia di poter cambiare qualcosa. Perché in nulla vedo l’alternativa al tracollo definitivo di ogni valore umano, al tracollo della comunità che mi ha visto nascere.

Ma la delusione più bruciante, forse, è personale. Perché io questa politica l’ho certata, l’ho votata, sostenuta, difesa. L’ho fatta mia, credendo in un cambiamento possibile, sperando che quelle persone rappresentassero una rottura col passato. E invece mi sbagliavo. In questi anni si sono rivelate per quello che realmente sono: arroganti, incapaci, opportunisti e – cosa per me più grave di tutte – traditori. Traditori non solo di un mandato, ma di un’idea di comunità, di una promessa fatta a chi aveva ancora fiducia. Il potere li ha cambiati? No, li ha semplicemente rivelati. Il potere, si sa, è un ottimo svelatore di maschere. E quelle che ora vedo, senza più illusioni, sono facce che nulla hanno a che vedere con il servizio, con l’umiltà, con la responsabilità. È una ferita che fa male perché viene da vicino. Ma è anche un monito: non basta votare “diverso” per ottenere un cambiamento. Il vero cambiamento, se c’è, nasce altrove: dentro le persone, non nei simboli o nei proclami.

È da qui che nasce il mio smarrimento, e anche un certo disagio – non esistenziale, sia chiaro, ma sufficientemente profondo da farmi riflettere. Non riesco più a identificarmi in nessuna proposta, eppure qualcosa in me resiste all’idea di voltarsi dall’altra parte. Anche se a volte l’idea di voltarmi dall’altra parte mi sfiora, poi mi domando: e se fosse proprio questo il momento di non chiamarsi fuori?

No, non è un proclama. Ma forse, dico forse, è arrivato il momento di uscire dalla comoda posizione del critico ad ogni costo, dell’osservatore disilluso. Perché credo ancora nell’essere umano: soprattutto quelli che come me non urlano, che non cercano una poltrona, che non hanno bisogno di appartenere a un branco per sentirsi forti. Credo in chi resta oggi fuori dal coro, e anche fuori dal recinto. Con Antigone, se necessario. Personaggio della mitologia greca che nella tragedia, sfida l’editto del re Creonte. Ed è significativo che io parli proprio di Antigone di Sofocle, abbia vissuto questa tragedia proprio al Teatro Greco di Taormina. Quell’esperienza di qualche anno fa mi rivela oggi qualcosa di essenziale. Lei che ha scelto la legge non scritta contro quella scritta, la pietà umana contro la ragion di Stato, l’amore contro il potere. Forse è proprio questo quello che resta: la capacità di dire no, quando il mondo intero grida “sì” per convenienza. Di restare umani in un mondo che sembra averlo dimenticato. Di scegliere la dignità anche quando costa cara, anche quando significa restare soli. E come Antigone non si limita a giudicare dall’esterno: agisce, sfida, paga di persona per i suoi principi. Non si accontenta della purezza morale dell’osservatore: si sporca le mani pur di non tradire i propri valori.

Forse è proprio questo che manca a Guardia: non più Antigoni che si limitano a contemplare le rovine, ma Antigoni che accettano il rischio di scendere nell’arena, consapevoli che si contamineranno, ma determinati a portare quella “legge non scritta” fuori e dentro le istituzioni.

Per questo mi piace ancora la politica, lo confesso. Ma come un vecchio amore che sai di non poter sposare, eppure continui a sognare. Senza illusioni, ma con un pizzico di ostinazione. E allora, sì, può darsi che qualcosa stia cambiando anche in me. Forse è solo una dichiarazione d’intenti. O un modo di dire che, se c’è ancora qualcosa da salvare, bisogna farlo con le mani sporche di terra, non restando affacciati alla finestra. Guardia, con le sue piccole guerre quotidiane e i suoi silenzi più assordanti delle parole, è lo specchio di un mondo più ristretto, più confuso, più stanco. Ma proprio per questo, forse, può essere anche il punto di partenza per un altro modo di abitare la politica. Un modo in cui contano ancora i gesti, le parole scelte con cura, l’ascolto. In cui non serva un certificato medico per dire che qualcosa non va. Perché in fondo, anche tra le rovine, c’è sempre qualcuno che raccoglie un mattone e prova a ricominciare. Magari non ci riuscirà. Ma almeno potrà dire: io non sono rimasto a guardare. È poco? Forse. Ma a volte, è proprio dal poco che comincia tutto.

Forse – smentendo di fatto quanto detto finora – è arrivato il tempo di attraversare quella terra di mezzo. Non per salvare la politica – che forse non può essere salvata – ma per salvare la comunità dalla politica cattiva. Questa potrebbe essere la vera rivoluzione: fare politica per distruggerla dall’interno, per restituirla a quella dimensione umana che sembra perduta per sempre.

Guardia aspetta. E forse, più di quanto immagini, ha bisogno proprio di chi non voleva più saperne di politica.