È arrivato il momento di ammetterlo: la nostra politica locale non ha bisogno di un nuovo sindaco. Ha bisogno di uno psicoanalista. Possibilmente con divano incorporato e tariffe agevolate per terapie di gruppo, perché qui il problema non è individuale. È collettivo. Sistemico. Direi quasi endemico, se non fosse che l’endemia implica almeno una certa vitalità dell’organismo.

Da decenni assistiamo a uno spettacolo che Nietzsche definirebbe “l’eterno ritorno dell’uguale”, ma che noi, più modestamente, chiamiamo “elezioni comunali”. Ogni cinque anni si ripete la stessa commedia: cambiano i nomi sulle liste (alcuni), cambiano le promesse (poche), cambiano i santini (elettorali), ma la sostanza resta immutata come il menu di Vinalia. È un po’ come guardare una serie TV che va avanti da un quarto di secolo con gli stessi personaggi che si passano di mano il ruolo del protagonista, mentre il pubblico – noi – resta inchiodato davanti al televisore in una sorta di sindrome di Stoccolma democratica. “Ma sì, dai, magari questa volta è diverso”, ci diciamo.

Il nostro sistema locale ha sviluppato una capacità di adattamento che farebbe invidia ai camaleonti: sa rinnovarsi senza mai cambiare davvero. È l’arte della metamorfosi apparente, dove si cambia pelle ma non DNA. Lista civica che diventa movimento, movimento che diventa associazione, associazione che torna lista civica. È il gioco delle tre carte della politica paesana, dove l’asso è sempre quello e sempre nelle stesse mani.

E noi? Noi siamo diventati spettatori così esperti che riconosciamo i copioni a memoria. “Ah, questa è la parte dove promettono di sistemare la bretella”, “Ecco, ora arriva il capitolo sui giovani che devono restare”, “Aspetta, manca solo la promessa sul rilancio del turismo, dell’enoturismo e abbiamo fatto bingo!”. Ma forse è proprio qui che sta la chiave di volta. Se il problema è sistemico, la soluzione deve essere collettiva. Non serve il messia politico (che poi, diciamocelo, se arrivasse davvero a Guardia Sanframondi, probabilmente si smarrirebbe già alla rotonda di Santa Lucia). Serve che noi, come comunità, usciamo dalla nostra comfort zone democratica. Perché, ammettiamolo, anche noi cittadini abbiamo le nostre responsabilità in questa storia. Siamo diventati specialisti nel lamentarci al bar ma afoni nel dibattito pubblico. Esperti nel criticare su WhatsApp ma timidi davanti al politico locale. Maestri nel dire “bisognerebbe fare” ma analfabeti del “facciamo”.

Il nostro paese ha una storia straordinaria, tradizioni che meritano rispetto, un piccolo patrimonio che però fa invidia. Ma stiamo rischiando di diventare i custodi di un museo invece che gli abitanti di una comunità viva. È la differenza tra conservare e cristallizzare, tra valorizzare e mummificare. I Riti Settennali sono bellissimi e interessanti, ma non possono essere l’unica cosa che accade qui ogni sette anni. Nel frattempo, che facciamo? Iberniamo Guardia? Contiamo i giorni su un calendario perpetuo? Invece di aspettare che qualcuno ci salvi, iniziamo a salvarci da soli. Non con slogan roboanti o programmi fotocopiati da altri comuni, ma con piccole azioni concrete. Partecipando davvero, non solo votando ogni cinque anni come se fosse un dovere da sbrigare velocemente.

Cosa succederebbe se, per una volta, il dibattito pubblico fosse più affollato dei bar? Se i giovani, invece di lamentarsi sui social che qui non c’è niente da fare, iniziassero a fare qualcosa? Se chi ha competenze, idee, energie, smettesse di tenerle nel cassetto in attesa del candidato perfetto che probabilmente non arriverà mai?

Il bello è che tutto quello che serve per cambiare c’è già. Le persone capaci ci sono (anche se spesso stanno in silenzio), le risorse si possono trovare, i progetti si possono sviluppare. Manca solo una cosa: la voglia di uscire dal copione che recitiamo da decenni. Forse il vero cambiamento di paradigma è questo: smettere di aspettare che la politica cambi e iniziare a cambiare noi il nostro rapporto con la politica. Non come sudditi che aspettano il buon principe, ma come cittadini che si prendono cura della propria comunità.

Allora, la domanda è semplice: vogliamo continuare a guardare la stessa serie TV per i prossimi vent’anni, oppure è ora di cambiare canale? O meglio ancora: è ora di spegnere la televisione e iniziare a scrivere noi la storia? Perché, alla fine – e qui ritorniamo alla psicanalisi -, la terapia di gruppo più efficace potrebbe essere proprio questa: iniziare a parlare tra noi davvero, a confrontarci senza paura, a progettare insieme invece di lamentarci separatamente.

Il divano di Freud può aspettare. Prima proviamo con un bel dibattito pubblico. Chi lo sa, magari funziona meglio.

P.S.: Le candidature per il ruolo di psicoanalista della comunità sono aperte. Si richiede esperienza in terapie di gruppo e buona resistenza alle dinamiche paesane. Astenersi perditempo e salvatori della patria.