A Guardia Sanframondi, come in molti piccoli centri del nostro territorio, assistiamo da decenni a un fenomeno che mina alla radice il concetto stesso di democrazia partecipativa: la cristallizzazione del potere politico nelle mani di poche famiglie storiche che, di legislatura in legislatura, si alternano nella gestione della cosa pubblica come fosse un’eredità da tramandare.
Queste famiglie politiche seguono un copione ormai rodato: scompaiono dalla scena pubblica subito dopo le elezioni, entrando in una sorta di letargo amministrativo, per poi riemergere puntualmente nei mesi precedenti ogni consultazione elettorale. Come cicale che cantano solo nella loro stagione, ricompaiono con promesse rinnovate, progetti ambiziosi e la solita retorica del cambiamento.
Ma quale cambiamento può portare chi da generazioni occupa le stesse posizioni, spesso riciclando gli stessi volti, gli stessi metodi, le stesse logiche?
Il potere di queste dinastie politiche locali non si basa sul merito o su programmi innovativi, ma su un sistema consolidato fatto di voti di preferenza garantiti: un bacino elettorale fidelizzato che vota per tradizione familiare più che per convinzione. Un clientelismo strutturato: favori, raccomandazioni e piccoli privilegi che creano debiti di riconoscenza. Un controllo capillare delle opportunità: chi non appartiene alla cerchia ristretta trova difficilmente spazio per emergere. E infine una rete di relazioni consolidata: rapporti con istituzioni, enti e realtà economiche del territorio che si perpetuano nel tempo.
Questo meccanismo crea un circolo vizioso: chi ha già il potere lo mantiene facilmente, chi vorrebbe portare idee nuove viene sistematicamente escluso. Il risultato è una politica locale sempre più autoreferenziale, dove l’unico criterio per aspirare a cariche pubbliche è il possesso di un “pacchetto di voti dimostrabile”. Non conta l’esperienza professionale, la competenza specifica, la freschezza delle idee o la passione per il bene comune. Conta solo quanti voti si è in grado di portare alle urne.
Chi non si è mai candidato nemmeno come consigliere comunale, chi non ha mai fatto parte del “giro”, chi magari ha costruito competenze altrove e vorrebbe metterle al servizio della comunità, trova tutte le strade sbarrate. Non per incapacità, ma per mancanza di quella tessera associativa che si chiama “appartenenza al clan”.
Quello che accade a Guardia Sanframondi è lo specchio fedele di una crisi che attraversa la politica italiana a tutti i livelli. La professionalizzazione della politica, l’autoreferenzialità dei gruppi dirigenti, la trasformazione degli incarichi pubblici da servizio temporaneo in carriera perpetua sono mali che dal nazionale si riflettono inevitabilmente sul locale. Ma è proprio a livello locale che questi meccanismi mostrano la loro faccia più evidente e dannosa, perché in una piccola comunità ogni cittadino dovrebbe poter contare, ogni voce dovrebbe essere ascoltata, ogni talento dovrebbe trovare spazio.
Lo ripetiamo da tempo, Guardia ha bisogno di una ventata di aria fresca, di volti nuovi, di idee innovative. Ha bisogno di una politica che torni a essere servizio e non privilegio, che si apra ai giovani, ai professionisti, a tutti coloro che hanno qualcosa da dare alla comunità.
È tempo di rompere il circolo chiuso che soffoca ogni possibilità di rinnovamento. È tempo che la politica locale torni ai cittadini, tutti i cittadini – guardiesi e non -, non solo a quelli che appartengono alle famiglie “giuste”. Solo così Guardia Sanframondi potrà guardare al futuro con speranza, liberandosi dalle catene di un passato che non vuole passare e costruendo una democrazia locale davvero partecipata e inclusiva.
La comunità se lo merita. È ora di pretenderlo. E magari, per una volta, sorprendiamoli: mettiamo fine al solito copione e scriviamone uno nuovo. Anche senza registi “di famiglia”.