C’è un tarlo che rode la vita sociale di Guardia, o quel che ne è rimasto. Il tarlo per cui tra chi si sforza di denunciare i difetti e le magagne che incrinano una vita di comunità e chi denuncia chi li denuncia, ad essere guardati con sospetto sono i primi. Anche lì dove i tarli, con il lavorio graduale ma incessante proprio dei tarli, sono arrivati piuttosto avanti nella compromissione, se non nella distruzione dell’oggetto preso di mira.
E così si costruisce una narrazione impermeabile, in cui l’apparenza conta più della sostanza, il consenso più della verità, e l’adesione più della partecipazione. È una china pericolosa, perché il silenzio collettivo, quando diventa sistematico, assomiglia molto a una rinuncia: la rinuncia alla cittadinanza, alla vigilanza, alla corresponsabilità.
Prendiamo un caso concreto. Un caso che conosciamo bene: Vinalia.
Da tempo è raccontata come il fiore all’occhiello di Guardia, esempio virtuoso di promozione culturale e turistica, modello di valorizzazione delle risorse locali. E in parte lo è stata davvero. Vinalia è nata con uno spirito genuino: dare visibilità ai produttori del territorio, far dialogare cultura e territorio, far incontrare il paese con chi viene da fuori. Ma oggi, a più di trent’anni dalla sua prima edizione, è lecito — anzi, necessario — chiedersi cosa sia diventata.
È ancora un progetto della comunità, o è diventato un evento calato dall’alto, replicabile ovunque, guidato da pochi, osservato da molti e discusso da nessuno?
È ancora una festa in cui il paese si riconosce, o una vetrina estetica che gira a vuoto, dove conta più l’immagine su Facebook che il coinvolgimento reale delle persone?
Si dice che “funziona”, perché “porta gente”, perché “fa parlare di noi”. Ma chi è questo “noi”? Quanti cittadini oggi si sentono davvero parte di Vinalia — e non semplici comparse in un copione già scritto? Domande scomode, certo. Ma la scomodità non è un crimine. Al contrario, è un atto di responsabilità civile. Non c’è nessuna intenzione distruttiva in tutto ciò, solo l’urgenza di preservare il senso originario di qualcosa che aveva — e ha ancora — una funzione importante. Ma senza analisi, senza confronto, senza autocritica, anche le idee migliori si svuotano. Restano le etichette, i manifesti, i comunicati, ma perdono significato le parole che dovrebbero nutrirli.
Quante decisioni vengono effettivamente condivise con il paese, e non semplicemente annunciate a cose fatte?
Chi sono i protagonisti reali dell’evento: i produttori locali, alcune famiglie del paese, o i visitatori in transito, che gustano, guardano e vanno via?
Domande scomode, sì. Ma necessarie. Perché senza analisi, senza confronto, anche le idee migliori si svuotano.
Resta la cornice, resta il marchio, ma il contenuto perde forza, il senso si sfibra, la partecipazione diventa decorazione. E in quel vuoto simbolico, il rischio è che la comunità si spenga proprio nel momento in cui si celebra.
Non c’è alcuna volontà distruttiva in queste riflessioni. Al contrario, c’è l’urgenza di preservare ciò che di buono Vinalia ha rappresentato. Ma per farlo, servono occhi lucidi e voci libere. Servono cittadini che non si accontentano di guardare, ma vogliono anche capire, partecipare, contribuire.
E invece a Guardia — non da oggi — accade spesso il contrario. Chi pone domande viene messo all’angolo. Si preferisce proteggere il “marchio” piuttosto che interrogarsi sul contenuto. La critica è vista come un attacco, il dissenso come minaccia, il confronto come pericolo.
Ma è proprio qui che si gioca il senso della democrazia. Una comunità viva non ha paura delle domande. Sa che la partecipazione non si esaurisce nell’applauso, ma si costruisce con il confronto — anche faticoso — tra visioni diverse. E sa che il dissenso, quando nasce da coscienza civica, è una risorsa preziosa, non un ostacolo da zittire. Oggi, invece, l’abitudine ad accettare tutto in silenzio, per non “rovinare l’atmosfera”, ha sostituito il confronto. Chi solleva dubbi è ormai considerato un elemento disturbante, uno che non capisce lo spirito delle cose, uno che “non sa fare squadra”. Come se l’unica squadra possibile fosse quella che gioca senza regole, e solo se vince sempre. Come se la comunità potesse sopravvivere solo a patto di non essere mai messa in discussione.
Chi oggi si interroga su Vinalia non lo fa per demolire, ma per ricordare che ciò che si ama va anche custodito, protetto dal tempo, dall’abitudine, dalla deriva dell’autoreferenzialità.
Perché le comunità non si celebrano soltanto nei giorni di festa. Si costruiscono ogni giorno. E si difendono anche — e soprattutto — con la critica.