A volte ci si illude che il peggio sia alle spalle. Che dopo anni di stallo, proclami e incompetenza, qualcosa possa finalmente cambiare. Poi si ascoltano le dichiarazioni di chi amministra Guardia — la comunità del Cambiamento — e si realizza che no, non è cambiato nulla. È solo peggiorato il modo di fingere che cambi qualcosa.
Colpisce — eccome se colpisce — la reazione scomposta, teatrale, negazionista davanti all’evidenza di un fallimento sotto gli occhi di tutti. Colpisce l’autoassoluzione sistematica, il silenzio, il gioco delle tre carte istituzionale, per cui se nulla funziona, non è mai colpa di chi governa: è colpa della burocrazia, dei tagli, del tempo atmosferico, della luna storta. E quando si arriva a corto di scuse, si organizza un convegno. Per parlare. Per discutere. Per perdere altro tempo. Ma sia chiaro: la realtà è un nemico pericoloso, meglio tenerla fuori dalla porta. Se si presenta sotto forma di cittadini critici, meglio ignorarli. Se assume l’aspetto di un paese svuotato di servizi, meglio coprirla con una bella diretta Facebook in cui si annuncia il solito “rilancio”. Magari con parole nuove per cose vecchie. Tipo: “La cultura genera turismo e, quindi, economia reale”.
Una frase da cioccolatino. Talmente ovvia da suonare ridicola se pronunciata da chi, in cinque anni, non ha generato né cultura, né turismo, né mezza idea.
Guardia, nel frattempo, si svuota (mentre si riempiono i social). Di tutto. Non ci sono più uffici di riferimento, se non quelli virtuali dove si può prenotare l’illusione. Non ci sono strade, marciapiedi, illuminazione pubblica. Le scuole chiudono o vengono ridotte, mentre si spera che qualche bando piovuto da Roma salvi l’ennesima emergenza. Il mercato domenicale, un tempo luogo d’incontro e scambio, presto verrà anch’esso archiviato come fastidio logistico. E no, nemmeno per lo struscio del fine settimana si esce più: che senso ha camminare lungo un corso dove non c’è nulla, nemmeno un negozio, un’area di sosta degna di questo nome?
Guardia è diventata uno spazio urbano senza funzione. Un bel fondale, pittoresco quanto inutile. Una cartolina che nessuno spedisce più. Eppure basterebbe poco: copiare bene. Come fanno altrove. Dove i piccoli paesi diventano isole pedonali vere, dove si creano servizi, eventi, piccole idee concrete, dove si progetta tenendo conto dei cittadini, non solo degli appalti. Ma qui, l’unica cosa che si costruisce è la narrazione. I Riti settennali. La Grande Opera Immaginaria. I Grandi Finanziamenti. Quella che serve solo per i post autocelebrativi sui social, sempre pieni di etichette e mai di contenuti. Qualcuno sogna persino l’overtourism.
C’è una frase che ricorre come un mantra: “Non è colpa nostra”. E qui sta la vera perversione delle amministrazioni degli ultimi anni: non si sbaglia mai per incapacità, ma sempre per colpa di qualcun altro. Chi osa fare domande, proporre alternative o segnalare problemi, viene accusato di essere distruttivo, poco collaborativo, o — peggio — nostalgico di un passato che, a onor del vero, era mediocre quanto il presente, ma almeno non aveva la pretesa di sembrare rivoluzionario. L’unico cambiamento visibile, infatti, è quello della soglia di tolleranza: ormai si tollera tutto, tranne il dissenso. Si accetta il nulla, ma non la critica. Si celebra ogni festicciola, persino una panchina dipinta.
Intanto si perdono servizi, si riduce la vivibilità, si smonta un’identità sociale pezzo dopo pezzo. Eppure, Guardia non si arrende. Non del tutto. La bellezza resiste. Per ora. Resiste nella pietra delle sue stradine del centro storico, nella forma del suo castello che, dall’alto, osserva impassibile questa lenta agonia. “Solo il principe dell’intelletto — direbbe Battiato — poteva immaginare un castello che fa sognare anche il nemico”. Oggi destinato a sede per eventi felici più che ad albergo di guarnigioni. Qui, invece, si sogna poco e si combatte ancora meno. Resiste nella bellezza che non ha bisogno di comunicati stampa, nel paesaggio che ha visto passare secoli di storia e adesso assiste attonito allo spettacolo di una politica che non governa, ma amministra la propria reputazione. Forse perché sognare è faticoso, e combattere espone a critiche. Molto meglio lasciare tutto com’è, e intanto pubblicare l’ennesima locandina di un evento che non lascia traccia, o un bando che resta sulla carta.
Guardia è uno di quei luoghi che meritano di essere visitati come simboli della lotta tra il bello e il brutto, tra la cultura e il potere. Guardia, oggi, va riguardata in due modi: come memento, per ricordarci tutto quello che non è stato fatto per salvarla. E come possibilità, perché la sua bellezza — quella vera, non quella da dépliant — è ancora lì, pronta a parlare a chi ha il coraggio di ascoltarla senza farsi distrarre dalla propaganda.
Benedetti stranieri. Perché la verità è semplice: non ci serve un altro slogan, un’altra promessa, un altro convegno con la fascia tricolore. Ci serve qualcuno che guardi Guardia con gli occhi dell’innamorato, non del burocrate. Che abbia idee, visione, coraggio. E, magari, anche un po’ di vergogna per ciò che è stato fatto (o non fatto) finora.
In conclusione: Guardia non ha bisogno di essere reinventata, ma riconosciuta. Non ha bisogno di miracoli, solo di amministratori con l’umiltà di imparare, il coraggio di decidere, la forza di ascoltare. E noi cittadini abbiamo il diritto (e il dovere) di chiederlo. Non domani. Adesso.