C’è una parola che da qualche tempo circola con insistenza nei dibattiti sull’Italia interna: restanza. La si pronuncia con reverenza, come fosse una forma di resistenza romantica. Restare, mentre tutto attorno si spopola. Restare, mentre i giovani se ne vanno, i servizi scompaiono, e i paesi diventano sempre più cartoline senza vita. Ma restare dove, e per fare cosa? Restare non ha senso se non si sovvertono lo stato delle cose, se non riguadagniamo allo sguardo i nostri luoghi, se non li riguardiamo con cura e prospettiva etica, se non siamo capaci di “difenderli” da quella malapolitica che vuole desertificarli – e qui il riferimento non è solo geografico, ma soprattutto politico.
Prendiamo Guardia Sanframondi, splendido borgo sannita adagiato tra le colline, dove ogni sette anni accade un piccolo miracolo: i Riti Settennali, evento potente e spirituale, attira migliaia di persone. Un fiume umano che invade il paese per una settimana, salvo poi evaporare nel nulla. E qui sta il problema: nessuno ha mai trovato il modo di trattenere quell’energia, di trasformarla in un volano duraturo. Ma come potrebbe essere altrimenti, quando chi dovrebbe governare questo processo si limita a posare per le foto di rito, a inaugurare il nulla, a promettere quello che non manterrà mai? Una volta terminata la processione, resta il silenzio. E i soliti problemi. E gli stessi volti al potere, immutabili e plastici come i Misteri.
Perché a Guardia, come in tanti altri paesi simili, non manca la bellezza, ma la visione. E soprattutto non manca l’incompetenza travestita da esperienza. Da un quarto di secolo – e anche più – si sono susseguite amministrazioni locali che, con poche eccezioni, si sono dimostrate incapaci non solo di progettare il futuro, ma anche di gestire il presente. Incapaci, diciamolo senza giri di parole. Inadeguate. Provinciali nel senso più limitante del termine. Amministrazioni che hanno fatto della mediocrità il loro marchio di fabbrica, dell’improvvisazione la loro strategia, del familismo la loro politica del personale.
Certo, le iniziative non sono mancate: Vinalia su tutte. Ma sono state fuochi di paglia: eventi spot, proclami da campagna elettorale permanente, convegni dove gli stessi sindaci si auto-celebrano davanti a una platea di convenuti per dovere, inaugurazioni di progetti mai completati, adesioni a network dal nome altisonante come “Città del Vino” – ah, la retorica delle etichette che dovrebbero sostituire i contenuti! – che hanno portato beneficio, guarda caso, più a chi le ha promosse che alla comunità nel suo complesso. Di sviluppo strutturale, neanche l’ombra. Di pianificazione seria, nemmeno il ricordo. E quando qualcuno, magari più giovane, più preparato, più visionario, ha osato proporre progetti validi, ecco che sono stati sistematicamente sabotati da rivalità personali, gelosie di bottega, beghe di cortile elevate a sistema politico. La cultura del “meglio niente che qualcosa fatto da altri” – cultura tipicamente italiana, ma qui portata ai massimi livelli – ha fatto più danni della grandine. Più danni dei terremoti. Perché almeno quelli sono calamità naturali, qui parliamo di calamità volute, cercate, coltivate con cura maniacale. E oggi, mentre il mondo corre verso il futuro, mentre realtà a noi vicine sanno reinventarsi come centri di eccellenza, qui si discute ancora se è meglio il campo sportivo in erbetta o rifare una gradinata, come se fosse urbanistica d’avanguardia. Come se fosse visione strategica. Come se bastasse questo per fermare l’emorragia demografica, per convincere un laureato a tornare, per attirare investimenti e creare lavoro.
Altro che restanza: a questo passo, resteranno solo qualche anziano nostalgico, un pugno di residenti volenterosi, e un numero crescente di case di riposo: nuovo business emergente nel deserto demografico, l’unica economia che cresce in questo luogo abbandonato da Dio e dai propri amministratori.
Il risultato è sotto gli occhi di tutti, per chi ha ancora il coraggio di guardare: scuole accorpate perché “non ci sono gli alunni”, giovani che non tornano più nemmeno per Natale, attività commerciali che chiudono una dopo l’altra mentre i sindaci inaugurano sagre del vino faraoniche come se fossero la soluzione ai problemi economici; sanità di prossimità trasformata in un miraggio burocratico da amministratori che si vantano di aver “portato” a Guardia un medico per gli incapienti un paio di volte al mese, case che cadono a pezzi mentre si spendono fortune per rotonde inutili, e servizi da terzo mondo in un paese che dovrebbe puntare sul turismo.
Intanto, cosa fanno i nostri eroi della politica locale? Tagliano nastri su progetti finanziati da altri, celebrano piccole iniziative con toni trionfalistici da Risorgimento, come se bastasse una mostra fotografica o uno show-cooking elitario sul castello per invertire l’emorragia demografica ed economica. Come se bastasse un post su Facebook per sostituire una strategia di sviluppo.
La verità è che la parola “restanza” a Guardia da sola non basta, se non è accompagnata da servizi efficienti, lavoro vero, infrastrutture moderne, e – soprattutto – da una classe politica che sappia fare meno selfie e più pianificazione. Da amministratori che si confrontino invece di limitarsi a copiare le peggiori pratiche del paese vicino. Ma qui, la programmazione del futuro sembra un concetto esoterico, roba da professori universitari che “non capiscono la realtà locale”.
E allora diciamolo chiaramente, con un pizzico di amara ironia ma molta concretezza: se il futuro è quello che ci è stato “programmato” finora da questa classe dirigente locale, se questa è la visione strategica che ci viene proposta, forse la vera restanza è quella del degrado, non delle persone. Restano i problemi irrisolti, restano le opere incompiute (monumenti all’incapacità gestionale), resta l’abbandono programmato. Resta una politica locale che ha trasformato l’arte del non decidere in una forma di governo. Diciamolo ancora più chiaramente, esplicitamente, senza paura di offendere chi ha offeso per decenni la dignità di questo luogo: restare non basta, può essere addirittura controproducente, se non si afferma una cultura e una pratica oppositiva contro questa mediocrità istituzionalizzata. Restare significa ribellarsi a questo stato di cose, appropriarsi dei valori, del paesaggio, della bellezza in cui viviamo strappandoli dalle mani di chi li ha traditi. Restare significa essere teneri con la propria terra ma spietati con chi la governa male, essere garbati con la comunità ma inflessibili con l’incompetenza, essere amorevoli con il territorio ma senza cedere e fare compromessi con la malapolitica che lo sta uccidendo. Significa bandire finalmente campanilismi da cortile di paese, conflitti personali spacciati per divergenze politiche, rancori piccolo-borghesi, separazioni tribali, maldicenze gratuite che sostituiscono il dibattito pubblico. Chi resta per consegnare, senza accorgersene, Guardia alla malapolitica che l’ha già devastata, ai pifferai più o meno occulti che promettono miracoli a ogni campagna elettorale, compie l’ennesimo, l’ultimo, definitivo tradimento nei confronti della propria terra.
Diciamo la verità che brucia: molti giovani di talento, pur volendo restare e mostrando la loro voglia e capacità di fare nel luogo in cui sono nati e che amano, finiscono con il partire, con il fuggire per sempre, sapendo che non potranno più tornare. Fuggono perché non hanno prospettive serie, non hanno lavoro degno, ma soprattutto fuggono perché si rendono conto che qui dovrebbero sottomettersi a logiche clientelari, aspettare che il “potente” di paese offra loro, rendendoli prigionieri di favori e ricatti, un lavoro sottopagato e mortificante. Fuggono perché capiscono che il merito qui non conta, che la competenza viene vista come una minaccia, che l’innovazione fa paura a chi campa di conservazione del potere.
Restare, allora, deve significare stare con, assieme, con tutti quelli che vogliono davvero cambiare le cose e mandare a casa questa classe dirigente inadeguata. Significa amare il proprio paese abbastanza da volerlo liberare da chi lo sta soffocando, fare rivivere Guardia nonostante e contro chi la sta facendo morire, essere orgogliosi delle proprie tradizioni ma non delle proprie amministrazioni. Significa rifuggire da un “noi” che esclude sempre gli altri, che ci autoassolve e assolve un ceto politico dirigente, una élite locale, sempre pronta a percorrere la via della lamentela vittimistica, senza avere mai in mente un progetto concreto, un’idea di cambiamento praticabile, una visione di futuro che vada oltre la prossima sagra paesana.
Guardatevi intorno, in Italia, nei paesi intorno a noi: anche se sarà difficile liberarsi di questa classe dirigente parassitaria, qualche luce appare all’orizzonte. Ci sono amministratori giovani, preparati, onesti, che stanno dimostrando che si può governare diversamente. Che si può attrarre investimenti, creare lavoro, fermare lo spopolamento. Ma bisogna avere il coraggio di cambiare, di votare diversamente, di pretendere competenza invece di familiarità, visione invece di clientelismo.
Resta, soprattutto, un grande interrogativo che è anche un’accusa: come si può oggi ancora parlare di “speranza anche contro la speranza”, rigenerazione, radici, quando chi ci governa non fa nulla di concreto per rendere quei luoghi vivibili? Quando preferisce inaugurare il vuoto piuttosto che costruire il pieno? Se vogliamo davvero che qualcuno scelga di restare, se vogliamo davvero salvare questi borghi meravigliosi, dobbiamo smetterla di raccontarci favole sulla bontà delle nostre amministrazioni e cominciare, finalmente, a fare sul serio. A pretendere il cambiamento. A non accontentarci più.
La restanza vera inizia dal coraggio di dire: basta così.