Un tempo, a Guardia Sanframondi, parlare di “morale” significava evocare un codice di condotta condiviso, magari imperfetto, ma riconosciuto. Oggi, basta pronunciare quella parola per ottenere sguardi infastiditi, sorrisetti ironici o, nei casi più gravi, un’alzata di spalle accompagnata da un bel “ma che sei rimasto a ‘e tiemp ‘e Pappagone?”.
La morale è diventata roba da nostalgici, da parrucconi, da chi ancora si ostina a credere che il bene comune conti più del tornaconto personale. Poveretti. Non hanno capito come funziona davvero il mondo. E soprattutto non hanno capito come funziona Guardia. Qui la bussola etica ha smarrito i punti cardinali. E poco importa: tanto il navigatore interno è settato da tempo su una rotta più chiara, più comoda, più efficace. Si chiama “conoscere qualcuno”. Il sistema del favore – non codificato, ma perfettamente funzionante – è il vero motore della nostra microeconomia sociale. Se sei dentro il giro giusto, la strada è spianata. Se invece pensi che bastino la competenza, il merito o l’impegno, auguri: potresti finire a fare da comparsa in una commedia già scritta, quella dove la parte del protagonista spetta sempre allo stesso cast.
Ma non è solo la politica a praticare queste sottigliezze con la grazia di un rito antico. È la cittadinanza stessa ad aver interiorizzato il modello. Il clientelismo non è più percepito come una stortura, ma come un linguaggio naturale. “Non è giusto, ma si fa così”, si dice. Con quella rassegnazione lucida di chi ha scelto il quieto vivere al posto della responsabilità. E quindi avanti: meglio un piccolo favore oggi che un diritto domani. Meglio una spintarella che una selezione. Meglio il parente sistemato che il concorso trasparente. Che poi, diciamocelo, vuoi mettere la soddisfazione di “aver sistemato le cose” con una telefonata piuttosto che con mesi di studio e preparazione? Questo sì che è spirito pratico.
Nel frattempo, la politica locale – quella che dovrebbe tenere insieme visione e servizio – si perde tra selfie, passerelle e mezze promesse. Il bene comune? Se ne riparla alla prossima elezione, possibilmente in diretta Facebook. L’obiettivo reale è la conservazione del consenso, non la trasformazione della realtà. E per ottenere consenso, si sa, non servono idee: bastano relazioni. Meglio se consolidate. Meglio ancora se ricattabili.
In tutto questo, chi prova a ragionare con la propria testa, chi osa dire che forse, solo forse, sarebbe il caso di premiare il merito o di pensare all’interesse collettivo, viene etichettato come sognatore, rompiscatole, o peggio ancora: “filosofo”. Che nel lessico locale è il peggior insulto disponibile, subito dopo “onesto”.
Eppure, nel silenzio, qualcuno ancora resiste. Studia, lavora, costruisce. Senza spinte, senza corsie preferenziali. Lo fa quasi in clandestinità, come se la rettitudine fosse un vizio privato da non ostentare troppo, per non sembrare ingenui. Sono pochi, ma ci sono. Non fanno rumore, ma tengono accesa – loro malgrado – una fiammella di speranza.
Guardia Sanframondi, alla fine, non è un caso isolato. È semplicemente uno specchio nitido di una tendenza generale: quella del declino morale mascherato da modernità. La differenza è che nei paesi piccoli tutto si vede meglio, si amplifica, si cristallizza. Qui la decadenza non si può nascondere dietro le luci dei grandi numeri. Qui si sente, si tocca, si respira.
Forse è il momento di chiederci, con un filo di imbarazzo, se questo modello – fatto di cortigianerie, scorciatoie, piccoli privilegi e grandi rinunce – sia davvero quello che vogliamo lasciare in eredità. Oppure se non sia il caso, ogni tanto, di tornare a parlare di morale. Non con toni predicatori o nostalgici. Ma con l’ironia disillusa di chi sa che siamo messi male, ma non per questo ha smesso di sperare.
Guardia Sanframondi non è peggiore di altri paesi. Ma come ogni comunità piccola, riflette con maggior nitidezza le crepe che attraversano l’intero tessuto sociale italiano. È uno specchio: deformante, ma sincero. Se vogliamo cambiare, serve ripartire da lì. Dal coraggio di dire che sì, abbiamo un problema morale. E che ignorarlo è forse la peggiore delle immoralità.
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