(Quando l’accettazione del declino diventa complice del sistema che vogliamo cambiare)
“Bisogna guardare avanti”, “fare buon viso a cattivo gioco”, “unire le forze senza guardare al passato”. Sono i mantra che risuonano puntualmente a Guardia quando si avvicinano le elezioni, accompagnati dall’immancabile “dobbiamo remare tutti nella stessa direzione per il bene del paese”. Ma dietro questa retorica dell’unità si nasconde spesso la più sottile delle strategie conservatrici: neutralizzare il dissenso attraverso l’inclusione forzata.
Chi oggi, propone di “prendere atto” della situazione e limitarsi a fare buon viso a cattivo gioco commette un errore di prospettiva fondamentale. Non si tratta di essere nostalgici o di rimanere ancorati al passato, ma di riconoscere che senza un’analisi onesta delle responsabilità storiche, qualsiasi tentativo di rinnovamento è destinato a rimanere superficiale.
Quando si dice – come scrive Annibale Falato in un post su Fb – “a nessuno della nostra generazione piace quello che sta accadendo, ma è così”, si sta di fatto legittimando lo status quo. È come dire che il declino di Guardia – lo spopolamento, la trasformazione in dormitorio, l’esodo dei giovani – sia una calamità naturale anziché il risultato di scelte politiche precise, di una gestione del potere che ha privilegiato interessi particolari rispetto al bene comune.
La richiesta di “fare corpo unico” suona nobile, ma nasconde una domanda cruciale: unità con chi? Con quella stessa classe dirigente che da quarant’anni amministra il paese portandolo al punto in cui si trova oggi? Con chi ha trasformato la politica locale in un sistema di cooptazione e clientele? Con chi ha assistito passivamente allo svuotamento demografico ed economico del territorio? L’unità vera non nasce dal dimenticare, ma dal riconoscere gli errori e costruire su basi nuove. Non può esserci aggregazione autentica se non si parte da una riflessione critica su come siamo arrivati fin qui. Altrimenti il rischio è quello di perpetuare, sotto nuove etichette, gli stessi meccanismi che hanno prodotto la crisi attuale.
È vero che i problemi da affrontare sono seri: la carenza di aggregazione, di socializzazione, di cooperazione. Ma questi non sono fenomeni astratti calati dal cielo. Sono la conseguenza diretta di decenni di politiche miopi, di una gestione del territorio che non ha saputo creare opportunità per i giovani, di una cultura politica che ha scoraggiato la partecipazione democratica. Come si può parlare di aggregazione in un paese dove chi ha provato a proporre alternative è stato sistematicamente emarginato? Come si può invocare la cooperazione quando per anni si è praticata una politica della divisione e della cooptazione selettiva? Come si può chiedere socializzazione quando si è permesso che il tessuto sociale si sfaldasse sotto il peso di interessi particolari?
Salvare “la nostra cultura e il nostro trascorso” non significa congelare il presente in una nostalgia sterile, ma significa avere il coraggio di una vera discontinuità. Significa riconoscere che alcune “anime” del paese hanno più responsabilità di altre nel declino attuale, e che una vera rinascita passa attraverso il rinnovamento della classe dirigente. Il “tutti dentro” oggi auspicato da alcuni è spesso la strategia più efficace per mantenere tutto com’è. È il modo più elegante per neutralizzare ogni cambiamento, diluendo le istanze di rinnovamento in un magma indistinto dove le responsabilità si annullano e le prospettive si confondono.
Guardare avanti non significa chiudere gli occhi sui fallimenti del passato, ma significa costruire un futuro diverso partendo da una diagnosi onesta del presente. Significa avere il coraggio di dire che il re è nudo, che il sistema che ha governato Guardia per decenni ha fallito nei suoi obiettivi principali. Solo da questa consapevolezza può nascere un’aggregazione autentica, non basata sull’oblio delle responsabilità ma sulla condivisione di una visione diversa di comunità. Una visione che non tema il conflitto democratico, che non confonda la critica con la distruzione, che non scambi l’unità forzata per la coesione sociale.
In conclusione: il vero realismo non consiste nell’accettare l’inaccettabile, ma nel riconoscere che senza un cambiamento radicale nelle modalità di governo del territorio, Guardia è destinata a un declino irreversibile. Chi invoca l’unità a tutti i costi spesso non fa che preparare il terreno per una nuova edizione dello stesso spettacolo. La sfida vera è costruire un’alternativa credibile, che sappia unire senza annacquare, aggregare senza omologare, guardare avanti senza dimenticare. Solo così si può sperare di spezzare quel circolo vizioso che ogni cinque anni ripropone le stesse promesse, gli stessi volti, le stesse logiche di sempre.
Guardia merita di più di un eterno “buon viso a cattivo gioco”, caro Annibale. Merita una politica che abbia il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e di costruire il futuro su fondamenta nuove.