C’è un momento nella storia di ogni comunità in cui una svolta economica diventa anche una rivoluzione sociale. A Guardia Sanframondi questo momento si chiama 1960, quando 33 uomini coraggiosi decisero di rivoluzionare le abitudini di un territorio e riscattare i vini del Sannio, fondando quella che oggi è tra le più grandi cooperative agricole del Mezzogiorno d’Italia.
Per capire la portata di questa rivoluzione, bisogna immaginare la Guardia Sanframondi del dopoguerra come un palcoscenico teatrale dove si rappresentava quotidianamente la commedia della sopravvivenza. I contadini locali erano come attori di una compagnia di giro che recitava sempre lo stesso copione: alba, campagna, fatica, tramonto, riposo, taverna. Le loro mani e i loro volti erano atlanti geografici scolpiti dal lavoro, dove ogni solco raccontava una stagione di stenti, ogni callo una negoziazione con la terra matrigna. In questo scenario, l’uva era trattata come una fidanzata poco attraente ma di buona famiglia: la si coltivava per necessità, non per passione. I commercianti casertani e napoletani arrivavano in paese come seduttori di professione, promettendo mari e monti ma lasciando in tasca ai coltivatori poco più che spiccioli e la sensazione di essere stati abbindolati da chi sapeva parlare meglio di loro. Ma quello che doveva essere un semplice riscatto economico – liberarsi da questi dongiovanni del commercio che riuscivano a spuntare prezzi da fame dalle uve locali – si è trasformato in qualcosa di molto più profondo e, per certi versi, inquietante. La comunità contadina di Guardia non si è semplicemente arricchita grazie al vino: si è trasfigurata, ha cambiato pelle come un serpente, ha sviluppato una nuova identità che spesso sembra più una performance che una trasformazione autentica.
Dove una volta c’erano braccianti e mezzadri che conoscevano la terra attraverso le mani sporche di fango – mani che sembravano enciclopedie viventi scritte in dialetto di sudore e fatica – ora prolifera una nuova “aristocrazia” che conosce il territorio attraverso le degustazioni. È come se un coro di voci rauche abituate a cantare la “Langella” nell’osteria di piazza Castello si fosse improvvisamente trasformato in un ensemble da camera specializzato in arie d’opera.
Oggi, gli agricoltori di Guardia hanno delegato la fatica della coltivazione per dedicarsi alla più nobile arte della comunicazione enologica. È nata un’élite del vino che non si accontenta di produrre: deve anche educare, orientare, influenzare. Si tratta di personaggi che hanno trasformato la propria competenza tecnica in una forma di superiorità culturale, che parlano di “terroir” con la stessa solennità con cui i loro nonni parlavano di santi e madonne, che hanno sostituito il calendario agricolo con quello dei saloni del vino.
Questa trasformazione ha prodotto un nuovo personaggio a Guardia, quello che potremmo definire simpaticamente il “radical chic della vigna”: una categoria di persone che utilizzano il vino come passaporto per un mondo intellettuale che sentono di meritare, come se l’uva fosse diventata improvvisamente una laurea honoris causa. Sono gli stessi che si svenano per un’apparizione nelle guide più prestigiose, che rincorrono le stelle e i bicchieri, che fanno incetta di premi, organizzano degustazioni “tematiche” dove si discute di cambiamenti climatici e sostenibilità, che invitano critici enologici per conferire prestigio alle loro etichette, che infine trasformano ogni vendemmia in un evento culturale degno di un festival cinematografico.
Il paradosso è che questa nuova aristocrazia del vino spesso disprezza proprio quella cultura contadina da cui proviene, come un principe che si vergogna del proprio sangue plebeo. Parlano di “saggezza ancestrale dei nostri coltivatori” ma solo quando serve a marketing e storytelling, come se i loro nonni fossero stati dei filosofi della terra invece che persone che facevano fatica a tirare avanti. Parlano di “bouquet” invece che di “sapore”. Questi intellettuali da sagra paesana hanno il potere di far sentire ignorante chiunque non conosca la differenza tra una Falanghina e un Fiano. Sono riusciti nell’impresa titanica di rendere la cultura un’arma di distinzione sociale piuttosto che uno strumento di crescita collettiva. “Valorizzazione del territorio”, è il loro ricatto preferito. Non importa se l’iniziativa consiste nel leggere poesie simboliste in dialetto davanti a tre gatti (rigorosamente di razza), accompagnati da un quartetto d’archi che suona musiche “di ricerca” incomprensibili anche ai sordi. Hanno monopolizzato il concetto stesso di “cultura” e l’hanno ridotto a un club esclusivo dove l’ingresso si paga con l’ipocrisia e l’uscita è vietata per statuto. Questi signori (e signore) del vino hanno creato una nuova nobiltà basata non sul sangue blu, ma sul latifondo e sul biologico certificato. La loro superiorità si misura in chilometri zero, in vini naturali e in formaggi di capra di Pietraroja. Oltre al bere sono riusciti a trasformare anche il mangiare in un atto politico: se non mastichi consapevolmente, sei complice del sistema.
Ma il fenomeno più grottesco di questa metamorfosi è l’ossessione per il riconoscimento esterno. Oggi all’aristocratico guardiese del vino non basta più produrre un buon vino per il mercato locale e nazionale: bisogna conquistare Pechino, Londra, New York, come se Guardia fosse diventata una piccola Sparta che deve dimostrare il proprio valore in terre straniere. Non basta più la soddisfazione del lavoro ben fatto: serve la recensione dell’enologo di fama, la presenza nelle guide internazionali, l’export che conferma il “valore” del prodotto. Così, paradossalmente, una comunità che dovrebbe aver trovato la propria identità attraverso il vino, sembra averla perduta nella ricerca ossessiva di una legittimazione che viene sempre da fuori. I produttori locali non celebrano più la tradizione vinicola di Guardia, ma si vantano di come questa tradizione sia “apprezzata all’estero”, come attori di fiction che hanno bisogno degli applausi del teatro per credere di saper recitare.
Questa trasformazione non ha coinvolto tutti i guardiesi allo stesso modo. Accanto all’élite del vino, che si palesa puntuale agli inizi d’agosto sulla piazza d’armi del castello, continua a esistere una comunità “normale” che spesso guarda con ironia, quando non con fastidio, alle pose dei nuovi “aristocratici della vigna”. Sono quelli che continuano a bere il vino sfuso, che non hanno mai partecipato a una degustazione “verticale”, che trovano ridicolo tutto questo parlare di “note olfattive” e “persistenza gustativa” quando una volta si diceva semplicemente “questo vino è buono” o “questo vino fa schifo”. Il risultato è una comunità spaccata tra chi ha fatto del vino un’identità culturale e chi lo considera ancora semplicemente un prodotto della terra, come una famiglia dove metà dei membri ha deciso di parlare solo in italiano mentre l’altra metà continua a esprimersi in dialetto. Una divisione che riflette, in piccolo, le contraddizioni di un paese che non sa mai se deve essere fiero delle proprie tradizioni o vergognarsene.
Il successo economico del vino di Guardia è innegabile. Sulle tavole d’Italia e del mondo, negli ultimi anni, sono spesso apparsi i nostri vini. Ma questo successo ha generato una sorta di “malattia del benessere” che ha trasformato produttori in personaggi, competenze in pose, tradizioni in brand, come se il paese fosse diventato un palco dove tutti recitano la parte di sé stessi. Il vino, che doveva essere il brand, il mezzo per il riscatto di una comunità, è diventato il fine di una trasformazione che spesso sembra più una recita che una evoluzione autentica. E così Guardia Sanframondi si ritrova con un’identità ibrida: né più comunità contadina, né davvero moderna, ma sospesa in una dimensione intermedia dove l’antico e il nuovo convivono in un equilibrio precario, spesso ridicolo, come un uomo che indossa contemporaneamente giacca e cravatta con gli infradito.
In conclusione, e bene che una comunità come Guardia si sia trasformata, ma la vera tragedia è che nel trasformarsi abbia perso la capacità di riconoscersi, sostituendo l’autenticità con la performance, la semplicità con la complicazione, la verità con la narrazione. È come se un paese intero avesse deciso di recitare una parte senza più ricordare chi era prima di salire sul palcoscenico.
P.S. Questo pezzo non vuole essere un atto d’accusa contro il successo del vino di Guardia Sanframondi, tutt’altro, ma una riflessione sui costi sociali e culturali di certe trasformazioni economiche. Il progresso non è mai neutro: cambia non solo le condizioni materiali di una comunità, ma anche la sua anima.