Da qualche anno a Guardia si respira un’aria nuova. Stranieri che si aggirano per le strade del centro storico, sguardi curiosi che si posano sui nostri vicoli, smartphone che immortalano scorci che fino a ieri erano solo parte del quotidiano. È la seduzione del turismo che bussa alla porta, promettendo sviluppo e rilancio economico. Ma siamo sicuri di voler aprire?

Il fascino è comprensibile. Vedere il proprio paese attraverso gli occhi di chi viene da lontano restituisce una dignità che spesso diamo per scontata. Guardia ha tutto per diventare una “destinazione”: la storia millenaria, l’architettura medievale, i Riti Settennali che già attirano pellegrini e curiosi. Perché non trasformare tutto questo in risorsa economica?

Eppure, proprio mentre accarezziamo questo sogno, il nostro centro storico si sgretola. Le infrastrutture mancano, il degrado avanza, i servizi latitano. È il paradosso di chi vuole vendere una bellezza che sta perdendo: come quella signora che diceva “vent’anni fa era bello, ma poi…”. Rischiamo di diventare noi stessi quella meta rovinata prima ancora di essere diventati davvero attrattivi.

Il turismo, lo sappiamo bene guardando altre realtà, non è un’attività neutra. È “un’industria estrattiva” che risucchia l’anima dei luoghi per restituire folklore semplificato. I nostri vicoli potrebbero trasformarsi in set fotografici, le nostre tradizioni in spettacolo, la nostra autenticità in prodotto da consumare. Ma c’è un problema ancora più profondo: stiamo già iniziando a guardarci con gli occhi del turista, a valutare ogni angolo del paese in base alla sua “attrattività”. Stiamo diventando anche noi un “corpo che vive di applausi”, dipendente dallo sguardo dell’altro per sentirci importanti. È questa la strada che vogliamo percorrere?

Non si tratta di condannare a priori ogni forma di apertura al mondo. Ma Guardia dovrebbe rimanere prima di tutto un “laboratorio di civiltà” – un luogo che produce pensiero, memoria e vita vera – piuttosto che una semplice destinazione. Prima di inseguire il miraggio turistico, dovremmo forse chiederci: cosa vogliamo davvero essere? Un luogo che vive o un luogo che si fa guardare mentre vive? Un paese che accoglie perché ha qualcosa da dire o perché ha bisogno di essere visto?

Il degrado del centro storico e la mancanza di infrastrutture, in fondo, potrebbero essere un’opportunità. Ci costringono a riflettere su cosa significhi davvero valorizzare un territorio. Forse, invece di correre dietro ai selfie e alle manifestazioni goderecce, dovremmo investire su quello che siamo: una comunità che ha attraversato secoli di storia mantenendo la propria identità – identità che oggi stiamo perdendo.

Perché i conti, alla fine, si fanno guardando le strade deserte alle dieci di sera in piena estate. Si fanno davanti al cartello “affittasi” che non trova risposta, all’insegna di un negozio avvolta in una busta nera come un lutto. I conti si fanno la sera, contando le luci accese nelle case, quanti caffè fa ancora un bar, se è rimasto un medico nel paese. È la matematica spietata dello spopolamento, quella che trasforma ogni sogno turistico in una beffa amara.

Questo è il dato di partenza, crudo e incontrovertibile. Ma è anche un dato che dà per scontato che non si farà nulla per invertire la tendenza, che il destino di Guardia sia già scritto nelle statistiche demografiche. I professoroni della politica locale, al contrario, continuano a dipingere scenari rassicuranti: da qui a qualche anno il numero degli abitanti rimarrà costante, anzi, dicono, addirittura sarà in aumento. Numeri magici che però nascondono l’assenza di una strategia, di un progetto, di una visione.

Quello che non si dice è che manca un progetto complessivo. Non ci sono proposte concrete, efficaci, antagoniste a questa cultura necrofila che ha preso possesso del paese. Oggi quasi nessuno lavora seriamente sulla memoria, sulla fiducia, sulla speranza di Guardia Sanframondi. Non c’è una nuova visione del paese, solo la ripetizione stanca di formule che non hanno mai funzionato. E se aggiungiamo che la credibilità di questo ceto politico è ai livelli più bassi di tutti quelli che si sono succeduti da un quarto di secolo a oggi – un ceto che certo non ha brillato nel capire che Guardia si andava progressivamente svuotando – il quadro si fa ancora più desolante. Come si può credere in una prospettiva turistica quando chi dovrebbe guidarla ha perso da tempo la fiducia della comunità?

Il turismo, in questo contesto, rischia di diventare l’ennesima illusione. Forse è proprio questo il punto: prima di chiederci se vogliamo diventare una destinazione turistica, dovremmo chiederci se vogliamo continuare a essere un luogo dove si può ancora vivere. Prima che sia troppo tardi.