Basta girare un po’ per il paese e sei costretto a farci i conti. Scendi dall’auto ed entri in un bar. E lì te lo trovi davanti, lo svuotamento delle aree interne sancito dal Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne. Fuori il vuoto, intervallato dal passaggio sporadico di qualche auto e di qualche bus desolatamente vuoto. E questo scenario si ripete in ogni parte d’Italia, che sia al nord, al centro o al sud. Ripenso a questo scenario e non posso non riflettere su quanto ci sia di grottesco nel Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne (PSNAI) 2021-2027, nel quale lo Stato italiano (nella sua attuale incarnazione governativa), con rigore da catasto, certifica la morte demografica di interi territori mentre propone asili nido in paesi senza bambini. Il documento parla di “accompagnamento in un percorso di spopolamento irreversibile” per aree con “struttura demografica compromessa”, come se si trattasse di una terapia palliativa per malati terminali. Una rassegnazione burocratica che alcuni hanno giustamente ribattezzato “resa istituzionale”. A Guardia Sanframondi, quel un bar ogni sera spegne le luci. E ogni mattina, quando le riaccende, è come se tutto il paese trattenesse il fiato, chiedendosi se questa volta sarà davvero l’ultima. È un gesto quotidiano che racchiude tutta la precarietà di un paese che, con i suoi quattromila e cinquecento abitanti in via di estinzione, rappresenta l’Italia che muore mentre la burocrazia romana redige piani per accompagnarla al cimitero.
Eppure, dietro questo apparente declino, si nasconde un paradosso che merita una volta di più di essere esplorato: Guardia ha tutto ciò che serve per rinascere, ma sembra aver dimenticato come si fa. Perché il primo vizio di Guardia è l’amnesia collettiva. Nessuno pensa di “rigenerare” alcunché quando le stesse, affezionate figure politiche sulla scena da decenni sembrano aver sviluppato una simbiosi con le loro poltrone che farebbe impallidire persino le cozze più tenaci aggrappate agli scogli. La loro longevità è, a dir poco, ammirevole, ma forse un po’ meno utile a risolvere il problema dello svuotamento di Guardia. È una domanda retorica, lo so, ma la sua eco mi tormenta. È questa incapacità di fare i conti con la propria storia, di valorizzare il proprio passato senza rimanerne prigionieri, il sintomo di una comunità che ha perso l’autostima.
Il secondo vizio è l’accettazione passiva del declino. Quando un territorio viene classificato come “area interna intermedia” – definizione che suona come una diagnosi medica pronunciata con distacco professionale -, traducendo dal burocratese: “Condannata, ma non ancora morta del tutto”, la tentazione è quella di arrendersi al destino. Il documento, con la precisione di un notaio che redige un testamento, certifica che anche qui, come nel 90% dei comuni del Mezzogiorno, ci sarà un “calo demografico irreversibile”. Poi, con l’ottimismo di chi vende enciclopedie, propone progetti per “il rilancio territoriale”. Ma quello che più preoccupa è che Guardia sembra aver interiorizzato la propria condanna, trasformando la profezia ministeriale in realtà autoavverantesi. Perché il terzo vizio è la sindrome della fuga. I giovani sognano di scappare, gli anziani oziano sulle panchine parlando di problemi che non si risolvono mai. Manca una visione collettiva del futuro, una progettualità condivisa che vada oltre la sopravvivenza quotidiana.
Eppure, Guardia non possiede soltanto figure politiche – autorevoli per alcuni – la cui unica peculiarità è quella del conseguimento e mantenimento del potere, possiede virtù straordinarie che la rendono unica nel panorama italiano. Prima fra tutte, la capacità di custodire tradizioni autentiche: i Riti Settennali, che ogni sette anni trasformano il borgo dei Sanframondo nel centro del mondo religioso, dimostrano che quando Guardia vuole, sa ancora stupire l’Italia intera (e non solo l’Italia). La seconda virtù è il patrimonio storico-architettonico-paesaggistico: il centro storico mantiene ancora intatto l’impianto medievale, un libro di pietra che racconta otto secoli di storia. Non è un museo, ma un organismo vivente che aspetta solo di essere rianimato. La terza virtù è la tradizione vitivinicola, che vive il suo momento migliore. I vigneti che circondano Guardia producono vini che competono sui mercati internazionali, dimostrando che la qualità può essere un volano per lo sviluppo. La quarta virtù, forse la più importante, è la presenza di nuovi residenti provenienti da ogni angolo del mondo. Questo folto gruppo di nuovi abitanti, in passato trascurati dalle cronache locali, oggi rappresentano una risorsa preziosa e sottovalutata. Nei bar che spengono le luci ogni sera, ci sono anche loro: stranieri che hanno scelto Guardia come nuova casa, che parlano “con tono accorato” di questa comunità e non solo nella loro lingua d’origine. Non sono i migranti immaginati dal Piano Strategico Nazionale – quelli che dovrebbero “ripopolare i borghi attraverso l’agricoltura” in un esercizio di ottimismo che sfiora la patologia – ma persone che hanno fatto una scelta consapevole. Questi nuovi guardiani rappresentano spesso un attivismo silenzioso ma prezioso: portano competenze diverse, sguardi esterni, energie fresche. Molti di loro sono professionisti, artisti, pensionati che hanno trovato in Guardia quello che le metropoli non riescono più a offrire: autenticità, ritmi umani, senso di comunità. Il loro “tono accorato” sui social è passione per il progetto di vita che hanno scelto. E la vera passione, si sa, non ha bisogno di un bonifico a fine mese per ardere.
La rinascita di Guardia può passare anche dalla loro energia e non soltanto attraverso i progetti fantasiosi del Piano Strategico Nazionale. Serve solo una strategia diversa, basata su tre pilastri concreti. Primo pilastro: valorizzare l’eccellenza esistente. I Riti Settennali dimostrano che Guardia sa essere il centro del mondo. Perché allora nessuno costruisce attorno a questa eccellenza un sistema di offerta culturale e turistica permanente? Un centro studi sulla religiosità popolare, un festival annuale delle tradizioni culturali, percorsi tematici che colleghino Guardia agli altri borghi della spiritualità? Secondo pilastro: fare del vino e dell’agricoltura di qualità il motore dello sviluppo. La tradizione vinicola locale non è folklore, ma industria competitiva. Attorno ai vigneti la politica può costruire un distretto agroalimentare che integri produzione, trasformazione, ristorazione, accoglienza. Non serve inventare nulla: basta guardare cosa hanno fatto territori simili in Toscana o in Piemonte. Terzo pilastro: creare una comunità internazionale. Gli stranieri potrebbero essere i pionieri di un nuovo modello di borgo cosmopolita. Guardia potrebbe diventare un laboratorio di convivenza interculturale, un luogo dove tradizioni locali e apporti esterni si contaminano creativamente.
La proposta provocatoria governativa di un “Piano per la Ritirata Dignitosa”, checché ne dica la politica di maggioranza e di opposizione, contiene una verità scomoda: non tutti i borghi possono e devono sopravvivere. Ma Guardia Sanframondi non è un caso disperato. È piuttosto un caso emblematico di opportunità sprecate, di potenzialità non valorizzate, di rassegnazione che si spaccia per realismo. Il bar che spegne le luci ogni sera non è solo metafora del declino. È anche metafora della resilienza: ogni mattina quelle luci si riaccendono, ogni giorno la comunità si ritrova, ogni giorno i Riti si rinnovano. La sfida è trasformare questa resistenza quotidiana in progetto di futuro. Non serve un miracolo. Serve la capacità di vedere con occhi nuovi, come suggeriva Proust, “il vero viaggio non è cercare nuove terre, ma avere nuovi occhi”. Eppure, oggi quegli occhi servono solo a trovare l’inquadratura migliore. Peccato, perché mai come ora avremmo bisogno di tornare a vedere Guardia, con altri occhi, non solo a immortalarla.
Guardia Sanframondi può ancora scegliere il proprio destino. La domanda è se avrà il coraggio di farlo, prima che sia troppo tardi, prima che l’ultima luce si spenga per sempre. Perché la vera tragedia non sarebbe la sua morte, ma la sua rassegnazione alla morte senza aver tentato di vivere.