Cari 25 lettori del blog, oggi vi accompagniamo in un viaggio antropologico nell’habitat naturale dell’Homo Guardiaensis, specie endemica del Mezzogiorno italiano, particolarmente concentrata tra le vie dissestate di Guardia Sanframondi. Muniti di ape e di trattore, di mascherina ed elmetto protettivo e dizionario dialettale.

Procediamo con cautela e diciamolo subito: Guardia Sanframondi non è un comune, è una nazione. Con tanto di confini mentali invalicabili, dogane invisibili e una costituzione non scritta che recita: “Tutto quello che succede fuori da qui non ci riguarda, tutto quello che succede qui è colpa del sindaco”.

Il guardiese vive in una dimensione parallela dove Napoli, “quella cosa caotica laggiù”, è più lontana della Luna, e Benevento è già considerata una metropoli internazionale. San Lorenzo Maggiore? Territorio nemico. San Lupo? Il caffè per fare quattro chiacchiere. Cusano Mutri? Pretendenti al trono. Cerreto Sannita? Quelli della ceramica che se la tirano.

La giornata del guardiese inizia con un rituale sacro: il pellegrinaggio al bar. Non un bar qualsiasi, ma il suo bar, quello dove ha il posto fisso dal 1987 e dove il barista conosce il suo ordine telepaticamente. Al bar, il guardiese si trasforma in un ibrido tra Sherlock Holmes e Dagospia: sa chi ha litigato con chi, perché Maria non parla più a Giuseppe, e soprattutto ha sempre una teoria complottista su ogni decisione amministrativa. “Quel semaforo lì l’hanno messo per far dispetto a mio cognato!” Il caffè viene sorseggiato con la solennità di un sommelier, mentre gli occhi scrutano ogni movimento nel locale.

Il guardiese ha sviluppato un sistema economico peculiare: compra tutto al discount telesino, alla Lidl, da Briko, ecc…, oppure dal cinese, ma poi si lamenta che “non si trova più niente di buono”. Il sabato va al centro commerciale Campania per risparmiare 2 euro su un paio di scarpe, ma poi spende 50 euro di benzina per andarci.

Produce aglianico nel suo vigneto di 200 metri quadrati e lo considera superiore a qualsiasi Taurasi. Ne regala bottiglie con l’orgoglio di chi dona diamanti, aspettandosi recensioni entusiastiche e conversioni immediate: “Allora, t’è piaciuto? Eh, questa è roba nostra!”

E che dire della politica (con la p minuscola): ogni cinque anni il guardiese non vota, sentenzia. Ogni amministrazione è “peggio della precedente”, ogni sindaco è “uno che non capisce niente” e ogni consigliere comunale è “uno che pensa solo ai fatti suoi”. Ma guai a toccargli il diritto di critica: è l’unica forma di partecipazione democratica che riconosce. Durante le elezioni, il guardiese sviluppa improvvisamente competenze in urbanistica, economia, diritto amministrativo e ingegneria stradale. Sa esattamente cosa bisogna fare per risolvere tutti i problemi del paese, ma ovviamente non si candida mai perché “io c’ho altro da fare”.

Ogni sette anni, poi, il guardiese subisce una metamorfosi: da critico seriale diventa ambasciatore culturale. Improvvisamente la sua casa diventa un bed & breakfast informale, il suo dialetto si arricchisce di termini storici inventati al momento, e la sua memoria selettiva ricorda solo gli aneddoti più epici. “L’anno scorso” (cioè sette anni prima) diventa il metro di paragone per tutto. Il guardiese conta i visitatori intervenuti come un contabile dei follower: “Quest’anno siamo arrivati a centomila!”, “Hai visto che c’era pure quel famoso giornalista?”, “il Tg1 ci ha fatto un servizio di tre minuti!”.

Il guardiese ha un rapporto conflittuale con la modernità. Ha il Suv ma da Guardia a San Lupo non supera mai i trenta chilometri all’ora. Ha lo smartphone ma non lo usa principalmente per chiamare i figli emigrati e lamentarsi che “non si sentono mai”, ma per fare la foto alla pizza. Su WhatsApp poi manda audio di 4 minuti per dire “Ciao, come stai?” e condivide fake news con la convinzione di un giornalista investigativo. Facebook è il suo giornale locale: commenta ogni post del sindaco con “Quando fate la strada?”, condivide foto sfocate del tramonto con didascalie poetiche (“La Guardia Bella”), e litiga con i compaesani per questioni che dal vivo non oserebbe mai sollevare.

Il guardiese è un fondamentalista della cucina gourmet. E chiunque non apprezzi “non capisce niente di cucina”. Al ristorante è un cliente impossibile: sa già cosa ordinerà prima di entrare e critica la preparazione di piatti che mangia da vent’anni. Se il cameriere è straniero, ordina gesticolando come se fosse sordomuto. A proposito di stranieri. Il guardiese pratica una forma particolare di razzismo: diffida di tutto ciò che viene da fuori, ma è tremendamente curioso. Il “forestiero” che compra casa viene studiato con la precisione di un entomologo: “Ma che ci è venuto a fare qui?”, “Chissà quanto l’ha pagata quella casa”. Però, una volta superato il periodo di quarantena sociale, il forestiero può essere promosso a “uno bravo” e ricevere l’onore supremo: essere invitato a pranzo per sentirsi dire “Vedi che qui si mangia bene?”. E potremmo continuare a lungo…

In conclusione: il guardiese è un personaggio tragico e comico insieme, che ama il suo paese con la stessa intensità con cui lo critica. È un conservatore che vorrebbe innovare, un tradizionalista che sogna il cambiamento, un localista che invidia il cosmopolita. Vive in un eterno presente fatto di abitudini rassicuranti e nostalgie selettive, dove il passato era sempre migliore e il futuro sempre incerto. È l’ultimo custode di un mondo che resiste alla globalizzazione a forza di Falanghina e campanilismo. E noi, che lo osserviamo da anni con tenerezza e un pizzico di esasperazione, sappiamo che in fondo anche lui è parte di quel patrimonio immateriale che rende questo paese un paese unico. Anche se a volte, quando si lamenta per la centesima volta della stessa buca nella strada, verrebbe voglia di spedirlo a…

Ma poi, d’estate, al tramonto, quando lo vedi seduto davanti al bar di Geppino che saluta ogni passante per nome, capisci che l’Homo Guardiaensis non è solo un personaggio folkloristico: è l’anima di una comunità che, nonostante tutto, continua a esistere. E per questo, alla fine, gli si vuole bene. Anche se è insopportabile.