Guardia Sanframondi, custode di antiche tradizioni e teatro dei celebri Riti Settennali, si trova oggi al centro di una riflessione che va ben oltre i suoi confini comunali. È qui, tra le colline che sovrastano la valle telesina, che si manifesta con particolare evidenza quello che potremmo chiamare il “deserto guardiese” – una condizione che riflette il malessere profondo di un’intera comunità.

Il “deserto guardiese” di cui parliamo non è solo una metafora sociologica, ma una realtà economica che si manifesta quotidianamente nelle strade vuote e nei registratori di cassa muti del nostro paese. Basta una passeggiata mattutina per rendersi conto di quanto sia diventata drammatica la situazione: già dalle prime ore del giorno, Guardia Sanframondi appare come un borgo fantasma, con le saracinesche alzate che sembrano interrogare il vuoto. Gli esercenti non si limitano più a lamentarsi sottovoce tra colleghi. Le loro voci si sono fatte sempre più disperate, i loro appelli sempre più accorati. “Non entra più nessuno”, ripetono con una rassegnazione che fa male al cuore. E hanno ragione. I loro bar, i loro negozi, un tempo luoghi di incontro e socialità, sono diventati presidi solitari di un’economia che arranca. E la fotografia che accompagna queste riflessioni (scattata alle undici di domenica mattina) è più eloquente di mille parole: strade deserte in pieno giorno, panchine vuote, un silenzio che pesa come una coltre. Ma è quando cala la sera che il deserto guardiese rivela la sua natura più spietata. Dopo le nove, intere zone del paese piombano in un silenzio tombale. Non c’è un’anima viva, non un passo che risuoni sui selciati, non una voce che spezzi il buio.

Questo non è solo il ritratto di una comunità che si spegne, ma anche il certificato di morte di un’economia locale che ha fatto del commercio di vicinato uno dei suoi pilastri. Quando i cittadini spariscono dalle strade, spariscono anche dai negozi. Quando le famiglie si ritirano nel privato delle loro case, abbandonano anche i luoghi pubblici del consumo e della socialità commerciale. È un circolo vizioso che porta dritto alla chiusura definitiva degli esercizi commerciali, trasformando il paese in un museo a cielo aperto dove si può solo guardare, ma non più vivere. Gli esercenti sono diventati gli ultimi custodi di una vitalità che si sta spegnendo. Tengono aperte le loro attività non solo per necessità economica, ma anche per resistenza civile, per non lasciare che il deserto sociale diventi totale. Ma fino a quando potranno resistere? Fino a quando si può tenere aperto un negozio in un paese dove dopo le nove di sera non passa nemmeno un cane? La questione non è più solo economica, ma esistenziale. Un paese senza commercio è un paese senza luoghi di aggregazione informale, senza occasioni di incontro quotidiano, senza quella rete di relazioni che nasce dalle piccole necessità e si trasforma in tessuto sociale.

Il deserto commerciale di Guardia Sanframondi è lo specchio di una comunità che ha perso la capacità di alimentare sé stessa. Non bastano i turisti occasionali, non bastano i Riti settennali se poi nei giorni ordinari le strade restano vuote e i negozi deserti. Serve una presa di coscienza collettiva: sostenere il commercio locale non è solo un gesto economico, ma un atto di resistenza civile. Ogni acquisto fatto sotto casa, ogni caffè preso al bar del paese, ogni serata trascorsa a passeggio per le strade è un voto a favore della sopravvivenza della comunità. Altrimenti, il deserto guardiese non sarà più una metafora, ma una realtà definitiva. E quando l’ultima saracinesca si abbasserà per sempre, quando l’ultimo esercente spegnerà le luci, allora davvero potremo dire di aver trasformato un paese in un cimitero di memorie. La scelta è ancora nelle nostre mani. Ma il tempo stringe, e il deserto avanza.