Guardia Sanframondi è diventata il simbolo perfetto di come una classe dirigente locale possa condannare all’estinzione la propria comunità. Non per incapacità tecnica, non per mancanza di risorse, ma per una scelta politica precisa: l’immobilismo mascherato da tradizione.

Mentre il nuovo Piano Strategico Nazionale per le Aree Interne sancisce ufficialmente l'”accompagnamento nel declino” per molti comuni del Sud, a Guardia questa strategia è stata applicata con decenni di anticipo. Solo che nessuno ha mai avuto il coraggio di ammetterlo. La classe dirigente locale ha preferito nascondersi dietro la retorica delle “radici” e della “tradizione”, trasformando questi valori in alibi per non agire.

Guardia Sanframondi non è sempre stata condannata al declino. Negli anni ’80 e ’90 aveva ancora margini di manovra, una comunità vitale, potenzialità economiche e territoriali. Ma cosa ha fatto la sua classe dirigente? Ha scelto la via più comoda: amministrare l’esistente, evitare i rischi, rimandare le decisioni difficili.

Mentre altri comuni del Sannio tentavano strategie di diversificazione economica, di attrazione di investimenti, di modernizzazione dei servizi, a Guardia si è preferito coltivare il mito del “paese che resiste”. Una resistenza che, nei fatti, si è rivelata essere solo immobilismo travestito da nobiltà d’animo.

Insomma: la strategia del “tanto basta così”. La classe dirigente di Guardia ha sviluppato una vera e propria filosofia dell’autoconservazione. Piuttosto che affrontare i problemi strutturali – la mancanza di opportunità lavorative, l’isolamento infrastrutturale, la carenza di servizi essenziali – ha scelto di gestire il quotidiano. Mantenere l’esistente, organizzare le feste tradizionali, tagliare i nastri di piccole opere pubbliche. Una politica di sopravvivenza che ha garantito consenso elettorale immediato ma ha ipotecato il futuro della comunità. Il risultato è sotto gli occhi di tutti: i giovani se ne vanno non appena possono, le attività economiche chiudono una dopo l’altra, i servizi si riducono progressivamente. E la risposta della classe dirigente? Continuare a parlare di “identità” e “tradizione”, come se bastassero a fermare l’emorragia demografica.

Uno degli aspetti più grotteschi della gestione politica di Guardia è stata la confusione tra promozione culturale e sviluppo economico. Per anni si è creduto che organizzare eventi folkloristici e goderecci, restaurare qualche palazzo storico, promuovere la Falanghina fosse sufficiente per attrarre turisti e fermare lo spopolamento. Ma il turismo occasionale non crea un’economia sostenibile. Le feste patronali non generano posti di lavoro stabili. I murales sui muri non fermano i giovani che partono per Roma o Milano. La classe dirigente di Guardia ha scambiato la visibilità mediatica per sviluppo reale, l’evento per la strategia, l’apparenza per la sostanza.

Oggi, mentre il governo nazionale ufficializza l’accompagnamento nel declino di luoghi come Guardia (il documento completo, lungo e articolato, lo trovate qui: https://politichecoesione.governo.it/media/yamnr5sl/piano-strategico-nazionale-delle-aree-interne.pdf.), la classe dirigente locale ha una responsabilità storica enorme. Non ha saputo anticipare i problemi, non ha costruito alternative economiche, non ha investito nell’innovazione, non ha creato le condizioni per trattenere i giovani. Peggio ancora, ha alimentato un’illusione collettiva, facendo credere che “resistere” fosse sufficiente. Ha trasformato la comunità in un piccolo museo a cielo aperto, dimenticando che i musei sono belli da visitare ma non ci si vive.

Guardia Sanframondi poteva scegliere strade diverse. Poteva investire nella formazione professionale, attirare piccole imprese innovative, sviluppare un turismo sostenibile e non occasionale, modernizzare i servizi pubblici, creare spazi di aggregazione per i giovani. Poteva diventare un laboratorio di nuove forme di vita comunitaria, un esempio di come si può vivere bene in un piccolo centro. Invece ha scelto la conservazione dell’esistente, la gestione dell’ordinario, la politica del “si è sempre fatto così”. Una scelta che oggi presenta il conto: l’estinzione programmata.

Ma la vera tragedia di Guardia non è solo il declino demografico in sé, ma il tradimento di un patto generazionale. I giovani che se ne vanno non tradiscono le proprie radici: sono stati traditi da una classe dirigente che non ha saputo offrire loro un futuro. Partono non per rifiutare l’identità locale, ma perché restare significherebbe rinunciare alle proprie aspirazioni. La responsabilità di questo tradimento è politica, non demografica. È il risultato di scelte precise, non di tendenze inarrestabili. E questo rende il fallimento ancora più amaro.

Guardia Sanframondi oggi è davanti a un bivio finale. Può continuare sulla strada dell’accompagnamento nel declino, accettando passivamente il verdetto del Piano Strategico Nazionale. Oppure può tentare un ultimo sussulto, sostituendo la classe dirigente dell’immobilismo con una nuova leadership capace di visione e coraggio. Non è troppo tardi per cambiare rotta, ma il tempo sta scadendo. E la responsabilità di questa scelta non è del governo centrale, della regione o delle tendenze demografiche. È di chi, a livello locale, ha il potere e il dovere di decidere se Guardia Sanframondi meriti ancora un futuro.

Sabato prossimo, nel convegno che si terrà al castello di Guardia Sanframondi dedicato al passato e al presente del paese, si presenterà un’occasione preziosa per un confronto sincero e coraggioso. Sarà il momento di andare oltre le celebrazioni retoriche e le ricostruzioni nostalgiche per affrontare finalmente le domande scomode: cosa ha funzionato e cosa no nelle scelte amministrative degli ultimi decenni? Quali responsabilità ha la classe dirigente locale nel processo di spopolamento? E soprattutto, esiste ancora la possibilità di invertire la rotta? Il castello, simbolo della storia millenaria di Guardia, diventerà così il palcoscenico di una resa dei conti necessaria. Non per alimentare polemiche sterili, ma per costruire finalmente una narrazione onesta del presente e gettare le basi per un futuro possibile. La comunità guardiese merita un dibattito all’altezza delle sfide che la attendono, non l’ennesima celebrazione di un passato che rischia di essere l’unico futuro rimasto.

Sia chiaro, le riflessioni contenute in questo articolo non sono un atto di accusa fine a se stesso, ma un contributo a quella discussione che non può più essere rimandata. Perché se è vero che il tempo sta scadendo, è altrettanto vero che finché esiste una comunità che si interroga sul proprio destino, esiste ancora la possibilità di cambiare rotta. La comunità lo merita. La classe dirigente attuale, evidentemente, no.