Eccoci qui, seduti davanti al solito bar di paese, a piangere sui figli volati via come rondini che non tornano più. Ma che bell’immagine poetica, vero? Peccato che siamo stati noi i primi a spingere quelle rondini fuori dal nido, magari pure con una pedata ben assestata.

L’altra sera, tra un caffè amaro e una lacrimuccia più amara ancora, quattro genitori-vedovi della globalizzazione si consolavano a vicenda. “I nostri figli sono partiti per sempre”, dicevamo con quella drammaticità tipica di chi recita una tragedia greca al bar sport. E mentre pronunciavamo queste parole solenni, dimenticavamo convenientemente che per anni li abbiamo spinti verso l’aeroporto con la stessa insistenza con cui si scaccia un piccione dal balcone. Ricordate? “Jatevenne! Fuitavenn!, gridavamo orgogliosi quando salivano su quel treno Italo (con qualche chilo di ogni ben di Dio nel trolley). “Che bravo mio figlio, va a Milano, Bologna, Londra, Valencia, Marte!” Eravamo così fieri di esportare i nostri pargoli che mancava poco organizzassimo una banda musicale per accompagnarli in stazione.

Ora però – sorpresa! – Guardia è diventata un paese fantasma. Chi l’avrebbe mai detto? Era così imprevedibile come un fulmine a ciel sereno in agosto. Due milioni di giovani spariti dal Sud, dicono le statistiche. Rapiti dall’Anonima Espatri, quella banda criminale meglio nota come Progresso, alias Modernità, in arte Globalizzazione. Ma noi, ovviamente, non c’entriamo nulla. Siamo vittime innocenti, orfani virtuali che meritano tutta la comprensione del mondo. La verità è che abbiamo trasformato i nostri paesi in stazioni ad alta velocità per anime in partenza. Guardia è diventata una gigantesca sala d’attesa di un aeroporto dove i giovani sostano giusto il tempo di prendere una laurea e un curriculum decente, prima di decollare verso lidi più promettenti. Un po’ come quei duty-free dove compri qualcosa solo per ammazzare il tempo prima dell’imbarco.

E ora che facciamo? Ci lamentiamo. Benissimo. Piangiamo come coccodrilli affamati che hanno divorato i propri piccoli e poi si disperano per la solitudine. “Che fine ha fatto il nostro paese?” ci chiediamo retoricamente, mentre sappiamo benissimo che l’abbiamo spedito per raccomandata all’estero, un pezzo alla volta. Il bello è che continuiamo a chiamarli “cervelli in fuga”, come se fossero evasi da Alcatraz invece che laureati con tanto di benedizione paterna. “Fuga” da cosa, poi? Dal paradiso terrestre che avevamo costruito per loro? Dalle infinite opportunità che offrivamo? Dai servizi efficienti, dal lavoro garantito, dal futuro radioso che li aspettava?

No, scappavano dal “catorcio” – così lo chiamavamo noi stessi il nostro paese, con quella autoironia tipicamente meridionale che nasconde una rassegnazione antica quanto la malaria. Li abbiamo cresciuti a pane e vergogna delle proprie origini, e poi ci stupiamo se appena possono se ne vanno? La famiglia-tipo di Guardia oggi è composta da padre, madre e WhatsApp. I figli esistono in formato digitale: una videochiamata la domenica, se va bene, e qualche foto su Instagram per farci credere che “stanno bene” (traduzione: hanno dimenticato la nostra esistenza ma sono educati).

Questo è il nostro capolavoro: abbiamo allevato una generazione di nomadi digitali che considerano il paese natale come un museo etnografico da visitare a Natale, se non hanno impegni più importanti. Abbiamo creato dei turisti della propria infanzia, che tornano giusto per fare un selfie davanti alla casa dei nonni prima di ripartire per la “vita vera”.

E adesso? Adesso ci resta il privilegio di essere i custodi di un cimitero chiamato tradizione, i guardiani di un museo a cielo aperto dove l’unica attrazione è la nostalgia. Possiamo raccontare ai pochi giovani rimasti come “una volta qui c’era vita”, mentre loro ci guardano con quella compassione riservata ai reduci di guerre dimenticate.

Ma aspettate, c’è un particolare che avevamo dimenticato di menzionare. Non tutti i giovani di Guardia sono partiti, no. I figli della classe dirigente locale sono rimasti. Loro non hanno avuto bisogno di salire su nessun aereo low-cost, di fare la fame a Milano o di cercare fortuna all’estero. Per loro c’era già tutto pronto: l’attività di famiglia, il posto nell’amministrazione, la raccomandazione giusta al momento giusto. Loro sono i fortunati eredi di un sistema che funziona alla perfezione: per chi ne fa parte.

Così mentre i figli degli agricoltori, dei piccoli commercianti volavano via con i loro curriculum sotto braccio, i rampolli delle famiglie che contano a Guardia rimanevano comodamente al loro posto. Nessun dramma esistenziale, nessun “jatevenne” per loro. Anzi, il contrario: “Restate, che qui c’è tutto quello che vi serve”. E infatti c’era. C’è ancora.

Ecco spiegato il mistero di Guardia: non è un paese completamente svuotato, è un paese selettivamente svuotato. È rimasta la classe dirigente con i suoi figli, se ne sono andati tutti gli altri. Una selezione naturale al contrario, dove sopravvivono i più protetti, non i più adatti. Il risultato? Una comunità sempre più chiusa, sempre più autoreferenziale, sempre più lontana dalla realtà di chi ha dovuto cercare altrove quello che qui gli era negato.

Ma non prendiamocela con i narratori di questo declino. Prendiamocela con noi stessi, che abbiamo trasformato l’amore per i figli in un biglietto di sola andata per l’estero. Abbiamo confuso il bene dei nostri ragazzi con la morte del nostro mondo, e ora ci ritroviamo ricchi di orgoglio e poveri di presenza. Il pianto del coccodrillo, appunto. Lacrime salate di chi ha provocato il proprio dolore e ora chiede comprensione per la propria solitudine. Ma i coccodrilli, si sa, piangono sempre dopo aver mangiato. C’era una volta Guardia. Oggi c’è solo il bar dove quattro genitori si consolano raccontandosi che i figli “stanno meglio così”. Forse è vero. Ma noi? Noi stiamo solo invecchiando, circondati dai fantasmi di quello che abbiamo voluto distruggere con le nostre stesse mani.

E domani? Domani ci ritroveremo ancora qui, a piangere lacrime di coccodrillo su una tragedia che abbiamo scritto noi stessi, riga dopo riga, partenza dopo partenza.

Eppure, sabato prossimo, avremo (avrete, chi scrive non potrà esserci) l’opportunità di guardare indietro senza lacrime di coccodrillo. Si terrà infatti la presentazione del libro “Antonio della Portella – fra realtà e fantasia – dagli anni ’50 a oggi”, un convegno che promette di affrontare i temi cruciali del nostro passato attraverso testimonianze, aneddoti e analisi storiche. Un viaggio nel tempo per scandire lo sviluppo di Guardia Sanframondi nel corso degli anni. Sarà interessante vedere se in questo excursus storico emergerà anche il momento in cui abbiamo iniziato a trasformare i nostri figli in merce da esportazione, o se continueremo a raccontarci la solita favola del “progresso inevitabile”. Un appuntamento importante per cittadini, studiosi e appassionati di storia locale, raccontano gli organizzatori: e forse anche per chi vuole capire come siamo arrivati a piangere lacrime di coccodrillo sui resti di quello che una volta era una gloriosa comunità.

Chissà, magari tra un aneddoto e l’altro, qualcuno avrà il coraggio di raccontare anche la storia di come abbiamo smantellato il nostro futuro pezzo dopo pezzo, partenza dopo partenza. O forse no. Forse continueremo a celebrare il passato mentre seppelliamo il presente.