(Quando le buone intenzioni non bastano più)
Si avvicinano le elezioni amministrative e Guardia Sanframondi si anima. Spuntano come funghi dopo la pioggia: comunicati accorati che farebbero invidia a Federico Moccia, analisi puntuali dei problemi del paese, associazioni dal nome altisonante che nascono e muoiono nell’arco di qualche mese, cittadini che improvvisamente scoprono la vocazione civica con la stessa frequenza delle comete di Halley. Tutti uniti da un denominatore comune: l’amore sviscerato per la comunità e la ferma volontà di “fare qualcosa” per il bene comune. Purché questo “qualcosa” lo faccia qualcun altro, ovviamente. Eppure, quando si tratta di passare dalle parole ai fatti, quando qualcuno ha l’ardire di chiedere “chi si candida?”, ecco che scatta il balletto delle scuse. “Io no, non ho interesse personale” (ma allora perché scrivi comunicati?), “Non mi candido”. “A me interessa solo il bene del paese” (interesse così forte da non volersi mai sporcare le mani). Una sinfonia di nobili intenzioni che suona come un’orchestra di dilettanti: tanta buona volontà, zero professionalità.
C’è qualcosa di esilarante in questa logica contorta. Come se l’impegno politico fosse una sorta di lebbra morale, come se candidarsi significasse automaticamente vendere l’anima al diavolo. Come se il “bene della comunità” fosse una specie di miracolo laico che si realizza per osmosi, senza che nessuno si sporchi le mani con quella cosa sudicia chiamata politica: quella vera, fatta per la gente, fatta di scelte difficili e cittadini che ti fermano al bar per lamentarsi della buca davanti casa loro.
La verità, dietro questa nobile riluttanza, è molto più prosaica: è tremendamente comodo fare i professoroni della politica quando si sa che non si dovrà mai render conto di nulla. È fantastico dispensare saggezza dall’alto della propria poltrona di casa, è rilassante proporre soluzioni rivoluzionarie quando si sa che toccherà a qualcun altro trasformare i sogni in pratiche burocratiche. È la sindrome dell’allenatore da bar applicata alla politica: tutti sanno come vincere il campionato, nessuno vuole scendere in campo.
Ma c’è un paradosso che rasenta il surreale. Se davvero tutti questi paladini del bene comune non si candidano – perché troppo puri, troppo disinteressati, troppo impegnati a salvare il mondo da casa propria – chi dovrebbe farlo? Il primo che passa per strada? Probabilmente la soluzione migliore. O forse dovremmo importare candidati da altri comuni, visto che i nostri sono tutti troppo nobili d’animo per abbassarsi a fare politica?
Il bello è che poi, quando qualcuno ha effettivamente il coraggio di candidarsi, ecco che spuntano gli stessi paladini di prima a criticare: “Quello cerca solo visibilità”, “L’altro è mosso da interessi personali”.
Guardia Sanframondi non ha bisogno di altri comunicati o di nuove associazioni dal respiro corto. Ha bisogno di persone coraggiose che trasformino le analisi in programmi elettorali, che mettano nero su bianco le proprie intenzioni, le proprie proposte e si assumano la responsabilità di realizzarle.
Il rischio altrimenti è che questa politica del “ci pensi tu che io sono troppo puro” finisca per trasformare Guardia Sanframondi in una repubblica delle chiacchiere, dove tutti sanno tutto ma nessuno fa niente. I cittadini, stanchi di sentire sempre le stesse litanie da chi poi scompare più velocemente di un gelato al sole quando si tratta di assumersi responsabilità, potrebbero semplicemente smettere di credere in qualunque proposta di cambiamento. E chi li biasimerebbe?
Perché alla fine, cari concittadini-filosofi della politica, il vostro continuo predicare bene e razzolare male sta creando un deserto civico. E nel deserto, si sa, crescono solo le erbacce. E voi che in questi giorni state trasformando il web in una bacheca di buone intenzioni: se davvero credete in quello che scrivete (e non state solo facendo esercizio di retorica), se davvero avete a cuore il futuro del nostro paese (e non state solo cercando un po’ di visibilità social), abbiate almeno il coraggio delle vostre parole. Costituite liste, presentate programmi, rischiate qualcosa di più di un “mi piace” su Facebook. Perché sapete una cosa? Il “bene della comunità” non è un hashtag che si mette alla fine dei post. È sudore, è perdere i sabati sera da qui alle elezioni in riunioni noiose, è beccarsi insulti dai cittadini quando le cose non vanno come promesso. È accettare che il proprio operato venga giudicato non dai like, ma dai risultati concreti.
Quindi smettetela di fare i santoni della politica da salotto. O scendete in campo davvero, o almeno abbiate la decenza di tacere e lasciare spazio a chi ha il fegato di provarci. Perché alla fine, tra chi sbaglia facendo e chi non sbaglia perché non fa mai niente, la scelta è facile.
Ma forse sto chiedendo troppo. Forse è più facile continuare a scrivere comunicati e aspettare che il cambiamento arrivi da solo, magari via Facebook.