La memoria storica può essere una lente spietata attraverso cui osservare il presente. Quando ripercorriamo gli anni Ottanta e ricordiamo gli “Incontri Cinematografici Internazionali con le tradizioni popolari” che animavano Guardia Sanframondi, emerge un quadro che stride profondamente con la realtà odierna del paese dei Sanframondo.
Negli anni della guerra fredda culturale, quando ancora il mondo si divideva tra blocchi contrapposti, un piccolo centro del Sannio come Guardia riusciva paradossalmente a essere più aperto e cosmopolita di quanto non sia oggi nell’era della globalizzazione. Il festival cinematografico dedicato alle tradizioni popolari rappresentava qualcosa di rivoluzionario: uno spazio di confronto internazionale dove registi da ogni angolo del pianeta si incontravano per raccontare l’identità dei popoli attraverso il linguaggio universale del cinema. Quella manifestazione non era solo un evento culturale, ma incarnava una visione del territorio come crocevia di idee, laboratorio di sperimentazione, ponte tra locale e globale. Era la dimostrazione che anche i piccoli centri possono aspirare a essere protagonisti di dibattiti culturali di respiro internazionale, purché abbiano il coraggio di osare e la lungimiranza di investire nella diversità culturale.
Oggi, invece, assistiamo all’avvento dell’uniformità. A distanza di oltre trent’anni, Guardia Sanframondi sembra aver smarrito quella capacità visionaria. Il panorama culturale del paese è dominato da un’unica realtà: Vinalia, evento che – è inutile negarlo – nel corso dei decenni ha acquisito una posizione di quasi monopolio nell’offerta culturale locale. Non si tratta semplicemente di una manifestazione che ha avuto successo, ma di un fenomeno che sembra aver fagocitato ogni spazio di espressione alternativa.
La stessa gestione di questa manifestazione per oltre trent’anni ha creato un sistema di potere che va ben oltre l’aspetto meramente organizzativo. Si è strutturata una rete di interessi che permea il tessuto socio-politico del paese, creando un meccanismo per cui ogni altra iniziativa che possa in qualche modo “disturbare” o competere con l’evento principale viene sistematicamente ostacolata.
È il prezzo dell’egemonia. Questo monopolio culturale ha un costo che va misurato non solo in termini di opportunità perdute, ma anche di impoverimento dell’offerta culturale di Guardia e del dibattito pubblico e della creatività collettiva. Quando un’unica voce domina la scena, quando un’unica visione del territorio e della sua vocazione diventa egemonica, si crea inevitabilmente un appiattimento che soffoca le potenzialità espressive della comunità. Il boicottaggio sistematico, poi, di iniziative alternative non è solo una questione di concorrenza sleale, ma rappresenta un attacco alla biodiversità culturale di un territorio. Ogni comunità ha bisogno di una pluralità di voci, di una dialettica costruttiva tra diverse visioni del futuro, di spazi di sperimentazione che permettano l’emergere di nuove idee e nuove leadership.
La storia degli “Incontri Cinematografici” e significativa e ci ricorda che Guardia Sanframondi ha nel suo DNA la capacità di essere altro da quello che è oggi. Quel festival non era solo il prodotto di chissà quali risorse economiche straordinarie, ma nasceva dalla passione, dalla visione e dal coraggio di una comunità che credeva nel valore della cultura come strumento di crescita e di apertura al mondo. Recuperare quello spirito non significa necessariamente riproporre format del passato, ma ritrovare la capacità di immaginare alternative, di sostenere la diversità, di creare spazi di libertà espressiva che vadano oltre le logiche del controllo politico.
È questa la sfida per il futuro. La questione che attraversa Guardia Sanframondi non è isolata, ma rappresenta un microcosmo di dinamiche che interessano molti piccoli centri italiani, dove spesso la gestione della cultura diventa strumento di controllo sociale e politico. La sfida è quella di ricostruire un tessuto democratico della vita culturale, dove diverse visioni – a partire dalla componente estera presente a Guardia – possano confrontarsi e dove l’innovazione non sia vista come una minaccia all’esistente, ma come una risorsa per il futuro.
Il ricordo di quel festival cinematografico degli anni Ottanta non deve essere nostalgico, ma propositivo: ci ricorda che un’altra strada è possibile, che la cultura può essere fattore di apertura piuttosto che di chiusura, di dialogo piuttosto che di monopolio. La comunità guardiese merita di riscoprire quella ricchezza espressiva che un tempo la caratterizzava, liberandosi dalle catene dorate di un successo effimero che rischia di trasformarsi in una prigione culturale.
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