Questo è un altro passaggio del libro che vedrà la luce (forse) dopo l’estate, ma che è già stato vissuto da chi abita queste strade, respira questi silenzi, subisce queste assenze. Il libro – inevitabilmente – parla di Guardia Sanframondi, del dispiacere profondo, della smania di allontanarsi dalla cappa sociale che opprime questo paese. Delle pessime prassi di convivenza civile, del folclore che maschera il vuoto, delle promesse di rilancio che suonano beffarde quando mancano i servizi di base. È una forma di anatomia di un’agonia. La carenza di servizi essenziali non è solo disagio quotidiano: è una dichiarazione politica non detta. Chi può permettersi una vita migliore deve cercarsela altrove. L’abbandono segue una gerarchia darwiniana: prima i giovani più preparati, poi gli adulti in età lavorativa, infine anche gli anziani – quando non vengono relegati in una casa di riposo – che dovrebbero rappresentare le radici più salde della comunità. La fuga silenziosa. I giovani neolaureati che pure avevano scelto di restare sono ormai costretti a emigrare verso il nord o l’estero, cercando luoghi dove meritocrazia e innovazione sociale non siano chimere. Rimane un nucleo residuale di abitanti che coincide con chi ha rendite da proteggere.
È inutile nasconderlo, il malfunzionamento è diventato sistema: il prodotto coerente di decenni di incuria amministrativa, clientelismo e assenza di progettualità. Alla base c’è un cortocircuito tra istituzione e cittadini: le decisioni vengono prese con logiche autoreferenziali, più attente al tornaconto personale che al benessere collettivo. Chi amministra continua a parlare di “sviluppo” e “futuro”, ma le parole restano vuote. Più che rispondere ai bisogni della gente, riempie gli spazi pubblici con slogan mentre i problemi reali vengono rimossi. Chi ha energie, idee, competenze si trova fuori posto, ignorato o ostacolato, mentre gli spazi di potere sono occupati da chi preferisce lo status quo a ogni costo. Checché ne dica la narrazione “ufficiale”, il senso civico è logorato da un ambiente che non premia la partecipazione ma incentiva la furbizia e l’isolamento. Guardia non è più lo spazio comune dei nostri avi, ma arena di resistenze private. Il degrado istituzionale genera una mentalità predatoria che sostituisce ogni senso di comunità.
Trasparenza ed equità sono parole prive di significato. Ecco il paradosso. Una comunità con tutte le risorse per crescere che rimane immobile per colpa di un sistema che difende sé stesso a scapito della propria evoluzione. La desertificazione demografica non è dato statistico ma sintomo quotidiano: ogni partenza è un voto di sfiducia, ogni abbandono un atto di speranza verso un futuro migliore. La fuga non è tradimento ma ricerca di dignità. E la comunità, privata della sua linfa vitale, si condanna alla stagnazione, diventando un palcoscenico dove ogni attore recita senza mai agire davvero per migliorare le condizioni di chi resta. C’è qualcosa di grottescamente poetico nel voler definire Guardia “la straordinaria gemma del Sud” mentre è scollegata da tutto, mentre i suoi figli fanno le valigie direzione Nord, lasciando dietro di sé genitori, case vuote e quel pecorino che, come recita ironicamente uno spot televisivo, “impuzzolisce” i bagagli. Ma i ragazzi partono e il pecorino resta, insieme al cuore.
Questa è Guardia nell’Italia del paradosso meridionale. Così come lo è il progetto sulle aree interne presentato in questi giorni dal governo, imbarazzante non solo per i suoi limiti strutturali, per le politiche inadeguate e inefficaci, ma per il messaggio negativo che manda alle nuove generazioni e ai giovani che vorrebbero restare nei paesi del Mezzogiorno. Paesi che conservano un fascino arcaico indiscutibile, sospesi tra iPhone e civiltà contadina, tra modernariato e antiquariato dell’anima, ma completamente scollegati dal presente che conta. Un progetto derivante dal Pnrr che alimenta una cultura necrofila e non aiuta certo a generare sentimenti di fiducia e di speranza in popolazioni che vivono già in condizioni spesso disperate, senza sostegno, senza servizi, senza ospedali, senza scuole. E che, di fatto, accentua la separazione tra Nord e Sud, la distanza tra territori fragili e marginali e aree metropolitane (che pure continuano a perdere abitanti). Guardia quindi non è un caso isolato, è il simbolo di un Sud trasformato in un immenso deserto dei Tartari, dove si aspettano invasori che non arriveranno mai e opportunità che tardano da decenni.
Ed ecco allora la retorica. La retorica di un termine alla moda inventato da qualcuno per nobilitare chi rimane: “Restanza”. Come se dare un nome accademico alla necessità potesse trasformarla in scelta consapevole. È il trionfo del politicamente corretto applicato al disagio territoriale: non si dice più “sono rimasto perché non potevo fare altrimenti”, si dice “pratico la restanza”. Il problema è che la restanza, per quanto poeticamente definita, non risolve l’equazione fondamentale: come si costruisce futuro in un luogo che vive di passato? Come si crea sistema in una realtà che si sgretola quotidianamente? Guardia possiede davvero un segreto “malandrino”: quello di essere una versione arcaica del mondo moderno che mantiene intatto il proprio fascino. I suoi Riti, i suoi luoghi, i suoi modi di dire emanano quella malia che resiste al disincanto generale. Uno splendore che commuove e inquieta insieme. Ma qui sta il cortocircuito: questo patrimonio emotivo e culturale rischia di diventare una prigione dorata. Quando l’identità diventa l’unica risorsa, quando il fascino dell’antico è l’unico capitale disponibile, si crea un museo a cielo aperto dove però la vita vera fatica a scorrere. Un museo a cielo aperto da decenni in attesa di una cura messianica. Una risposta chiara e determinata, che non si limiti a dichiarazioni vuote ma si traduca in azioni concrete. È vero, il problema di Guardia è il problema dell’Italia intera, di un Paese che non riesce a trattenere i propri talenti, che non sa valorizzare le proprie eccellenze territoriali, che continua a ragionare per emergenze invece che per strategie. Noi invece perseveriamo con la retorica della “straordinaria gemma del Sud ” che finisce per trasformare il paese in cartolina digitale per il visitatore mordi e fuggi. Guardia e i mille paesi come lei hanno invece bisogno di politiche serie: di servizi essenziali garantiti, incentivi concreti per chi investe e per chi resta, non di spot pubblicitari che celebrano un pittoresco in via di estinzione. La restanza va bene, ma deve essere una scelta, non una condanna. E per essere scelta deve offrire alternative credibili, non solo il fascino malinconico di un mondo che se ne va. Il rischio altrimenti è quello di trasformare Guardia e il Sud in un parco tematico della nostalgia, dove i visitatori vengono a commuoversi su ciò che l’Italia del Sud è stata, mentre i suoi abitanti migliori continuano a prendere il primo treno ad alta velocità per Milano.
La sfida vera, quindi, per contrastare l’abbandono e la fine di una comunità non è celebrare Guardia come gemma nel deserto, ma fare in modo che il deserto torni a fiorire. Perché Guardia nonostante tutto continua ad esprimere (forse anche senza volerlo) ancora un sentimento nell’era del tramonto dei sentimenti. Esprime l’antiquariato di un’anima fosse anche sotto vesti di modernariato. Quell’essere in un certo senso “la versione arcaica del mondo moderno” che promana dai suoi Riti e perché no dalla sua storia. A Guardia vi troverai anche quella mezza tinta di dolcezza e di latente disagio (se non di rivalsa) che accompagna l’album di ricordi di ognuno di noi, il raffronto dall’esito sempre incerto fra ciò che eravamo e ciò che siamo. Dai soprannomi al “getta il sangue”. Dalle tremende feste di matrimonio agli altarini domestici ai funerali e lutti. Dalle sagre goderecce alla festa del patrono. Dalla vita stretta alla vita gratis. Dalla Madonna agli abitanti ogni sette anni in posa. Dalle scuole e dai bar allo struscio domenicale. Dalla religiosità al paganesimo. E volti, volti, una collezione di volti segnati dalle sole e dalle rughe che ci fissano dai loro anni e chissà cosa ci vogliono dire.
La vita umana è un fragile equilibrio tra memoria e oblio. Non dimentichiamocene. Non c’è più tempo da perdere. Guardia non può permettersi di restare ancorata a una spirale di declino che non fa che accelerare. La sfida che ci attende non è solo quella di invertire un processo che sembra inesorabile, ma quella di scegliere da che parte stare. Si può continuare a guardare dall’esterno, con il disincanto di chi magari se n’è andato, o affrontare le difficoltà e rimboccarsi le maniche per cambiare il corso delle cose. Chi, nonostante tutto, vive a Guardia ha una responsabilità morale verso sé stesso e verso chi lo circonda. Non si tratta di resistere passivamente, né di accettare un destino che altri sembrano aver già scritto. Si tratta di partecipare attivamente alla costruzione di una nuova realtà, di dare forma a una comunità che non si limiti a sopravvivere, ma che possa davvero prosperare.
Le prossime battaglie politiche, culturali e sociali devono essere combattute con determinazione, affinché il cambiamento non resti solo un’idea lontana, ma diventi una concreta possibilità per tutti. Chi se ne è andato invece ha fatto una scelta che, purtroppo, in molti casi è stata una necessità. Ma non possiamo continuare a pensare che l’unica opzione sia fuggire da questo paese. Non possiamo pensare che le persone più capaci, i nostri giovani, debbano per forza andare altrove per trovare ciò che Guardia non sa più offrire. È necessario lavorare insieme, senza illusioni, ma con il realismo di chi sa che la rinascita dipende da un impegno collettivo.
Si può e si deve ripartire. Cosa serve per ripartire? Politiche inclusive e meritocratiche, che valorizzino chi ha idee e voglia di fare. Un’azione politica trasparente e responsabile, che agisca concretamente e non a parole. Accesso equo ai servizi, senza privilegi né favoritismi. Spazi reali di partecipazione civica, dove ogni voce conti e ogni proposta possa trovare ascolto e riscontro. Guardia non è morta. Ha solo bisogno di chi crede ancora in lei. Ha bisogno di idee e proposte, tra novità e déjà-vu, che potrebbero essere un punto di partenza, che toccano il cuore di una questione che non possiamo più ignorare. Dieci punti per rilanciare Guardia, dalla partecipazione civica allo sviluppo sostenibile. Proposte sensate, alcune delle quali suonano però familiari. Troppo familiari. Gli spazi di dialogo e partecipazione? L’amministrazione comunale li ha promossi più volte negli ultimi anni. Ricordiamo gli incontri pubblici che si sono svuotati dopo le prime sedute, le assemblee cittadine che hanno visto sempre le stesse facce, i forum dei giovani, delle donne, rimasti deserti. La partecipazione non si improvvisa: serve un metodo, una continuità e soprattutto la percezione che le parole si trasformino in fatti. Il sostegno all’innovazione locale? Anche questo è stato al centro di diverse iniziative amministrative. Bandi per start-up che non hanno trovato candidati, progetti di enoturismo rimasti sulla carta, incentivi per l’artigianato e l’imprenditoria locale utilizzati da una manciata di operatori. Il problema non è sempre la mancanza di volontà politica, ma spesso l’assenza di un tessuto imprenditoriale pronto a cogliere le opportunità. La valorizzazione culturale? Quanti eventi sono stati organizzati negli ultimi anni? Quante iniziative per le scuole sono state lanciate? Eppure i giovani continuano a partire, le tradizioni a sbiadire, l’identità locale a indebolirsi. Dove sta il Problema?
Il punto non è che le proposte siano sbagliate – anzi, molte sono condivisibili. Il problema è che alcune di esse sono già state tentate con risultati modesti. Questo ci impone di riflettere su tre questioni cruciali: stiamo davvero comprendendo le cause profonde del declino di Guardia? O continuiamo a curare i sintomi invece della malattia? Come si passa dalle buone intenzioni ai risultati concreti? Serve forse ripensare il modo in cui coinvolgiamo i cittadini e implementiamo i progetti? Abbiamo le competenze, i fondi e gli strumenti necessari per realizzare davvero questi cambiamenti? Guardia può farcela da sola o serve una strategia d’area che coinvolga i comuni limitrofi?
Ma c’è un rischio che non possiamo ignorare: la stanchezza dei cittadini di fronte all’ennesima lista di buone intenzioni. Guardia ha bisogno di vedere risultati tangibili, anche piccoli, che dimostrino che il cambiamento è possibile. Forse è il momento di essere più selettivi: scegliamo non dieci ma tre punti e realizziamoli davvero. Invece di grandi visioni, partiamo da piccoli successi che ridiano fiducia alla comunità. È questa la sfida vera. La scelta è nostra. Ma questa scelta deve essere informata dalla consapevolezza che alcune strade sono già state percorse senza successo. Non possiamo permetterci di ripetere gli stessi errori. Guardia ha bisogno di coraggio, ma anche di realismo. Di visione, ma anche di pragmatismo. Di speranza, ma anche di onestà intellettuale nel riconoscere cosa non ha funzionato e perché. Il futuro di Guardia non è scritto, ma nemmeno può essere immaginato ignorando il passato. È tempo di imparare dai tentativi precedenti e costruire su basi più solide. Solo così potremo davvero dire che questa volta è diverso.