Alle dieci di sera a Guardia Sanframondi potresti anche metterti a urlare “al fuoco!” in piazza Castello e l’unico a risponderti sarebbe un cane randagio con problemi d’udito. Non è un’immagine poetica: è il bollettino clinico di un paese in stato di sedazione profonda. Non c’è bisogno del defibrillatore, qui serve un esorcismo.

Nel 1951 erano quasi 7.000 anime. Oggi sono poco più di 4.500, inclusi quelli che non rispondono al citofono perché sono dalle parti di Milano, di Torino o all’estero da almeno quarant’anni. L’età media supera quella del Senato della Repubblica, e i bambini sono più rari di una cartolina scritta a mano. Se il futuro è dei giovani, qui ci siamo già giocati pure il presente a tressette.

Ma il dramma di Guardia non è che non ci sia più niente. Il dramma è che tutto quello che c’è sta a Telese Terme, cioè il paradiso dei grandi marchi commerciali, dei discount e delle pizze formato famiglia. E così Guardia – con le sue pietre secolari, i vicoli da cartolina e la vista mozzafiato – viene regolarmente abbandonata soprattutto ogni weekend per inseguire il miraggio del gelato o dello yogurt lungo viale Minieri.

Ecco il paradosso: mentre noi fuggiamo verso l’omologazione commerciale, arriva gente dalla città e da mezzo mondo in cerca di quello che noi consideriamo antiquato. Vengono per fotografare le nostre pietre, per respirare la nostra aria pulita, per toccare con mano quella che chiamano “Guardia Bella”. E noi? Noi li guardiamo stupiti, come se fossero matti a preferire il nostro paese a un borgo più bello e importante. È come se avessimo sviluppato una forma di dislessia territoriale: non riusciamo più a leggere il valore di quello che abbiamo sotto gli occhi. Abbiamo scambiato il patrimonio per peso morto, la storia per zavorra, la bellezza per seccatura. Ci siamo convinti che moderno significhi necessariamente brutto, e che antico significhi necessariamente morto.

Nel frattempo, a comprare le case nel centro storico sono loro i cittadini urbani e suburbani e gli stranieri. Loro adorano il silenzio, la lentezza, il profumo del mosto in autunno. E noi? Noi sogniamo il parcheggio davanti casa. Ci siamo stufati persino della nostra bellezza. La viviamo come un vecchio mobile della nonna: nobile, sì, ma anche molto polveroso.

C’è poi la sindrome cronica del “qui non succede mai niente”, che è diventata una profezia che si autoavvera. Non succede niente perché abbiamo smesso di far succedere qualcosa. Non succede niente perché quando qualcuno prova a muoversi, trova più ostacoli che incoraggiamenti. Non succede niente perché abbiamo elevato la lamentela a sport nazionale e l’inerzia a filosofia di vita.

Eppure basterebbe poco. Basterebbe, ad esempio, smettere di pensare che ogni iniziativa debba nascere “dall’alto” e iniziare a capire che le comunità si costruiscono dal basso, mattone dopo mattone, idea dopo idea.

La politica? C’è, come le buone intenzioni dopo tre bicchieri di aglianico: generosa con gli amici, un po’ confusa, tendenzialmente inefficace e incapace di visioni a lungo termine. Ogni tanto si organizza un convegno sul “rilancio del territorio”: cioè, una riunione con catering. Ogni tanto si dà la cittadinanza onoraria a qualcuno che è soltanto passato di sfuggita per Guardia. Ogni tanto si accende la speranza, ma è più facile che si spenga la luce.

E poi c’è il nodo dei nodi: i giovani. Quei pochi che restano lo fanno per inerzia o per mancanza di alternative, non per scelta consapevole. Quelli che se ne vanno portano via energie, competenze, sogni. È un’emorragia che non si arresta. Non è che manchino le opportunità: è che non sappiamo più riconoscerle. Il turismo lento, l’agricoltura di qualità, l’artigianato d’eccellenza, il digitale che consente di lavorare da remoto: tutto questo esiste, ma richiede visione, coraggio, capacità di fare rete. Richiede di smetterla di guardare sempre altrove e iniziare a investire su quello che abbiamo.

E allora viene da chiedersi: vogliamo davvero svegliarci? O ci siamo affezionati al nostro letargo, come chi si abitua al letto sfondato ma non lo cambia per affetto? Perché non si tratta di tornare al passato – che tanto, pure quello non era così dorato come ce lo raccontiamo – ma di costruire un futuro che non ci trasformi tutti in surrogati urbani. Vogliamo essere guardiesi, o una fotocopia sbiadita di Telese Terme?

Una cosa è certa: continuare a fare gli scongiuri non basta più. O ci diamo una svegliata, o tra qualche anno non resterà che un cartello all’ingresso del paese: “Qui un tempo c’era Guardia Sanframondi. Poi è arrivata la domenica pomeriggio a Telese.” Ma forse c’è ancora tempo. Forse quella che chiamiamo morte è solo ibernazione. E forse, per svegliarsi, basta che qualcuno abbia il coraggio di suonare la sveglia.

P.S. Se avete un’idea, un progetto, o anche solo una presa multipla per attaccare il cervello, fatevi avanti. Il paese dorme, è vero. Ma magari è solo in dormiveglia. Basta qualcuno che abbia il coraggio di tirare la coperta.