Guardia non è un paese morto. Ma è un paese ferito. Ferito da anni di promesse disattese, da un linguaggio politico che ha smesso di rivolgersi alle persone per concentrarsi su sé stesso. Ferito da una sfiducia che si è fatta abitudine, da una delusione che è diventata silenzio.
La politica, qui, ha smesso di rappresentare. Si è trasformata, troppo spesso, in rappresentazione: un gioco chiuso, fatto di parole vuote, ruoli formali, ambizioni personali travestite da interesse collettivo.
Il cuore di questa ferita è la disillusione. Un sentimento più profondo della rabbia, più persistente del dissenso. La disillusione toglie la voglia di discutere, di proporre, di crederci ancora. Non si protesta: si consuma ogni giorno nei piccoli gesti mancati. Nelle serrande che si abbassano definitivamente, nei giovani che fanno le valigie senza annunci, negli incontri pubblici deserti.
La distanza tra istituzione e cittadini non è una teoria: a Guardia è un’esperienza quotidiana. Nel tempo, al di là di qualche rara eccezione, le amministrazioni che si sono succedute negli ultimi decenni raramente hanno saputo ispirare visione, trasparenza o progettualità. Sempre più spesso si è assistito a un governo del presente, incapace di costruire futuro. Una gestione che si è limitata all’ordinario, senza immaginare il possibile.
Il cittadino guardiese non è stupido: ha capito benissimo che da noi l’interesse collettivo è solo un pretesto. E risponde con il disimpegno, perché l’alternativa — restare coinvolti ma inascoltati — fa più male. Così, “farsi i fatti propri” è diventato un atto di difesa, non di egoismo. Un modo per non restare feriti ancora.
Ma ciò che preoccupa di più non è solo l’efficienza amministrativa: è il progressivo svuotamento del senso civico. Quando in questa comunità chi si impegna con competenza viene ignorato, e chi coltiva solo relazioni personali viene premiato, si manda un messaggio chiaro: il merito non conta. La serietà non serve. La dignità si paga cara. A Guardia, come in tanti altri piccoli comuni, la politica locale si è progressivamente chiusa in sé stessa. È diventata uno spazio autoreferenziale, dove i ruoli — anche quelli marginali — assumono un’importanza simbolica sproporzionata. Guardia è un paese piccolo, dove bene o male si conoscono tutti. Quindi, se avete a che fare con qualcuno che ha un po’ di potere, in qualsiasi ambito, fateci caso e osservate attentamente come si comporta. Meglio ancora se lo conoscevate prima che conquistasse quel titolo o quell’incarico che gli conferisce tale attribuzione perché scoprirete come possono cambiare le persone. Persone con una loro vita professionale che tuttavia sono alla continua ricerca di un incarico che legittimi la loro esistenza. E quando, poi, riescono ad ottenere un qualsiasi riconoscimento, attraverso appoggi e rapporti di relazione, cambiano carattere, cambiano modo di essere e si trasformano in altezzosi personaggi senza scrupoli.
Non è il piccolo potere in sé il problema – che può dare ad esempio un’istituzione come il Comune -, ma il modo in cui viene vissuto: come un privilegio, non come un compito. Ci si aggrappa a una carica, nella speranza che basti a dare significato alla propria presenza pubblica. E intanto i rapporti umani, quelli veri, vengono trascurati. I sorrisi diventano formali, le parole vaghe, le relazioni rigide.
Ma una comunità, però, non vive di cerimonie. Vive di fiducia, riconoscimento reciproco, ascolto sincero. Non è questione di facce, ma di cultura. Guardia ha bisogno di voltare pagina. Ma voltare pagina significa cambiare i protagonisti. Significa cambiare il modo stesso in cui si concepisce l’impegno pubblico. Serve una cultura nuova. Una cultura in cui le parole tornino a essere strumenti per costruire, non scudi per proteggersi. In cui l’onestà non venga usata come etichetta elettorale, ma praticata nei fatti, anche — e soprattutto — quando non conviene. Serve una politica che non cerchi il consenso facile, ma che abbia il coraggio dell’impopolarità necessaria. Una politica che non prometta tutto, ma mantenga qualcosa. Che non cerchi di piacere, ma di essere utile.
Ricostruire la fiducia: una sfida lenta, ma possibile. Non esistono ricette rapide. Ma esiste una direzione possibile. Significa rimettere in circolo parole autentiche, restituire spazio a chi è stato messo da parte, coinvolgere chi ha smesso di credere. Altri protagonisti. Significa aprire porte, anche a chi ha idee diverse.
In conclusione: Guardia può ancora rinascere. Non con una promessa, ma con una pratica: la pratica del bene comune. Che non è astratta. È fatta di trasparenza, di collaborazione, di coerenza tra ciò che si dice e ciò che si fa. Chi vuole servire questa comunità, oggi, deve sapere che non basta essere “nuovo”: bisogna essere giusto, credibile, aperto. La comunità si salva solo se torna a riconoscersi. E il primo passo, di qui a qualche mese, quando ci recheremo alle urne, è guardarsi in faccia — senza finzioni — e ricominciare a parlarsi. A sceglierci di nuovo. Non per abitudine, ma per convinzione. Non per paura, ma per coraggio. Perché il cambiamento non lo porta chi grida di più, ma chi costruisce insieme. È tempo di esserci. Davvero, stavolta.
Ma pensiamo davvero che tutto ciò possa realizzarsi? È un ideale alto. Forse persino utopico. Ma non per questo inutile. La realtà, certo, ci mette davanti a divisioni, cinismo, disillusione. Guardia è più frammentata che unita, più chiusa nei propri recinti che desiderosa di parlarsi. Eppure, ogni cambiamento profondo è sempre partito da qualcosa di apparentemente fragile: un atto di fiducia, una parola detta al momento giusto, una scelta controcorrente.
Quindi la risposta è: sì, può realizzarsi.
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