Nel tempo del cambiamento, la cultura a Guardia sembra vivere in una sospensione cronica. Più che cambiare, resta com’è sempre stata: modesta, frammentaria, priva di una visione. Una condizione che delude chi sperava in svolte ma che rassicura chi teme ogni invasione di campo culturale come potenziale disturbo.
Eppure il punto non è la colpa o il merito di chi amministra. Il dato più preoccupante è che, a qualsiasi latitudine, la politica oggi incide pochissimo sulla cultura. L’ha progressivamente abbandonata, perché sempre meno sensibile alle idee. Se non è un grande evento, la cultura non è una priorità amministrativa; non genera consenso immediato, non risponde a logiche d’urgenza. E così viene trattata con neutralità, quando non con indifferenza.
A Guardia questa dinamica è evidente. Non si ravvisa alcuna strategia, nessun disegno coerente. Si interviene poco, e in modo episodico. Nessun piano strutturato, nessun investimento serio nella selezione delle competenze, nella valorizzazione delle eccellenze locali, nella progettazione di contenuti. E non da oggi. La cultura resta una battuta di spirito. Piccoli segnali ci sono – qualche presentazione di libri, qualche iniziativa – ma sono deboli, effimeri, talvolta non all’altezza. Il bilancio culturale del Comune è più un elenco di tracce che un racconto di scelte.
Certo, le risposte istituzionali sono sempre le stesse: “Ci sono priorità più urgenti”. Ed è vero. Ma è un errore considerare la cultura una voce secondaria, quando può influenzare mentalità, generare senso civico, costruire una comunità.
E poi ci sono i Riti Settennali, appena celebrati in una delle loro migliori edizioni. Un momento straordinario, che ogni sette anni trasforma Guardia in un luogo sospeso tra sacro e collettivo, tra fede e teatro popolare, tra simbolo e mistero. Un patrimonio immateriale riconosciuto ben oltre i confini nazionali, capace di attrarre studiosi, visitatori e fotografi da tutto il mondo.
Ma è proprio qui che si misura il paradosso più amaro. I Riti accendono un fuoco identitario potentissimo – comunità, memoria, tradizione – che però nell’istituzione guardiese non lascia traccia. Non esiste un racconto condiviso dei Riti, né un archivio vivo, né un progetto che li custodisca e li interpreti come parte di un cammino culturale più ampio. Ogni sette anni, si accende una fiamma. Ma tra un’edizione e l’altra resta cenere.
La mancanza non è nei Riti in sé, che vivono e vivranno ancora fortemente nella devozione popolare di Guardia, ma nella capacità delle istituzioni di coglierne il potenziale culturale. I Riti potrebbero essere il centro di una narrazione più vasta, occasione di riflessione antropologica, artistica, educativa. E invece restano sospesi, celebrati ma non pensati, vissuti ma non elaborati.
Nel frattempo, il resto del tempo è scandito da cautela e minimalismo. Nessun segno di discontinuità rispetto al passato, nessun salto di qualità. A Guardia la cultura è in ritirata da anni. Non solo negli eventi, ma nella qualità della riflessione, nella circolazione delle idee, nell’energia creativa di chi amministra. Anche questo è specchio di una politica che ha smesso di essere laboratorio di pensiero.
Allora la domanda è: cosa resta della cultura, se non se ne occupano né le istituzioni né la società? O meglio: chi deve occuparsene? Forse è tempo di liberarla dalla politica, e restituirla a chi davvero la vive e la costruisce. Perché la cultura non nasce per delibera, ma dalla passione, dalla competenza e dal desiderio di pensare insieme.
E se i Riti ci insegnano qualcosa, è proprio questo: che a Guardia esiste una cultura silenziosa, potente, che può unire e trasformare. Ma solo se qualcuno ha il coraggio di raccoglierne l’eredità.