C’è un entusiasmo legittimo intorno all’iniziativa “Guardia Viva!”. C’è voglia di rimettere al centro il dialogo, la visione, la partecipazione. E c’è anche una generosità di fondo che va riconosciuta: quella di chi prova a costruire qualcosa di nuovo in un contesto difficile, segnato da stanchezze, delusioni e promesse mancate.
Ma tutto questo, da solo, non basta.
Chi c’era racconta che durante la presentazione del movimento, non sono mancati i toni ispirati, le parole accattivanti, i riferimenti alla “visione”. Ma il paese reale – quello che ogni giorno convive con disservizi, inefficienze e mancanza di prospettive – non si governa con gli slogan. Le persone non vivono nelle premesse: vivono nelle conseguenze. E oggi, le conseguenze si chiamano declino demografico, fuga dei giovani, servizi carenti, assenza di prospettive socio-economiche.
Si è parlato di “nuove energie” e di “scambi culturali”. Ottimo. Ma in concreto, nessuna proposta dettagliata. Nessun piano operativo. Nessun riferimento chiaro a come si intenda passare dalle parole ai fatti. È facile evocare il cambiamento. Più difficile è indicarne i meccanismi, verificarne la fattibilità, garantirne la sostenibilità. Non basta dire “costruiamo insieme” dal basso: bisogna dire come. Con quali strumenti di partecipazione? Con quali risorse? Con quali priorità? Chi ha partecipato all’evento racconta una narrazione coinvolgente, ma anche un’assenza di contenuti veri sui problemi urgenti del territorio.
C’è poi un nodo irrisolto: il rapporto con il passato. Liquidarlo come una “guerra” da non combattere più è una semplificazione pericolosa. Il passato non è un nemico: è un contesto. Capire cosa ha funzionato e cosa no non è nostalgia: è metodo. Ed è anche l’unico modo per evitare che chi oggi si presenta come “nuovo” stia, in realtà, solo riciclando vecchie logiche sotto parole diverse.
“Viviamo nel presente”, si è detto. Bene. Allora parliamo del presente. Della mancanza di una politica seria per la qualità della vita di questo paese. Della scarsa capacità di pianificarne il futuro. Della debolezza della classe dirigente. Della necessità di competenze, non solo di entusiasmo. Perché il cambiamento non si misura nelle parole: si misura nelle soluzioni concrete. Per questo serve anche chi conosce i vincoli di bilancio, le regole dell’amministrazione pubblica, i meccanismi del finanziamento. Serve chi sappia agire, non solo evocare. Altrimenti, qualsiasi progetto che nasce “dal basso” rischia di diventare l’ennesimo esperimento di comunicazione politica travestito da partecipazione. L’ennesima narrazione nuova senza strumenti reali per cambiare il corso delle cose.
In sintesi: ben vengano le energie nuove, ma il cambiamento si misura nella capacità di proporre soluzioni concrete, non slogan eleganti. Il territorio non ha bisogno di parole “nuove”. Ha bisogno di persone che lo conoscano, lo vivano, e si assumano la responsabilità di governarlo, anche nelle difficoltà. Chi vuole proporre un cambiamento serio deve mettere in campo soprattutto responsabilità, non solo entusiasmo. Altrimenti, qualsiasi progetto per il paese, rischia di essere solo un altro esperimento di comunicazione politica travestito da partecipazione.