C’è un verbo che domina la scena politica di Guardia più di ogni altro: “stare per”. L’amministrazione Di Lonardo in questi cinque anni ha elevato il futuro prossimo a cifra del proprio operato. Non si governa: si preannuncia. Non si decide: si ipotizza. È una grammatica del potere fatta di verbi perifrastici e partecipi futuri, un eterno “siamo sul punto di”, “ci accingiamo a”, “stiamo per fare”. Ma la realtà resta ferma, immobile, quasi imbalsamata nella sua paralisi.

Questa amministrazione non agisce: si prepara a farlo. Non si sporca le mani con la concretezza delle scelte, ma si esercita nel prestidigitarismo linguistico. È una politica che vive nel tempo verbale dell’intenzione, mai della decisione. La svolta epocale è sempre lì, a un passo, come un miraggio che svanisce appena si tenta di raggiungerlo.

Nel frattempo, il poco che si realizza è solo frutto di necessità tecniche – le scadenze di bilancio, gli obblighi burocratici, l’ordinaria amministrazione – e comunque si tratta perlopiù di progetti avviati da altri, in ere politiche ormai archeologiche. Per il resto, la gestione è una commedia d’improvvisazione, una scatola vuota piena di selfie, dirette Facebook e frasi fatte.

Il circo della politica paesana. Se l’immobilismo avesse un’estetica, sarebbe quella dell’avanspettacolo: luci, paillettes, promesse. L’amministrazione Ninì Tirabusciò danza attorno ai problemi con movenze da varietà, senza mai osare quella “mossa” che i cittadini invocano. La platea chiede azione, ma sul palco si continua a tergiversare, come attori troppo consapevoli della propria inadeguatezza.

E in effetti è difficile sfuggire all’impressione che molti dei protagonisti di questa giunta siano miracolati della politica, da decenni, finiti in ruoli amministrativi senza averne strumenti, visione o consapevolezza. Vengono “dal nulla virgola zero”, e a quel nulla sono fedelissimi. La linea politica? Inesistente. Piuttosto, uno scarabocchio mutevole, ridisegnato ogni giorno in base a esigenze di sopravvivenza. Il potere come mestiere. Ma se i protagonisti sono inesperti, il sistema che li regge non lo è affatto. A Guardia, come in molte realtà locali, il potere si è fatto mestiere, e il mestiere è restare al potere. Nessuna idea, nessuna passione civile, nessuna tensione verso il bene comune. Solo l’urgenza di non perdere la sedia, di non cedere il posto al nemico, anche a costo di accordi improbabili e alleanze posticce. Una politica chiusa a riccio, trasformatasi in una consorteria autoreferenziale, priva di spina dorsale ma saldamente attaccata alle leve del comando.

Così, chi oggi amministra può anche giocare con lo smartphone, tra un consiglio comunale e l’altro, tra una delibera e l’altra, intestarsi progetti ereditati, sfilare in passerella con la fascia tricolore della propaganda. L’importante è apparire, e magari, nel tempo, fagocitare ogni voce dissonante con l’abbraccio molle di un inciucio elevato a strategia.

Una comunità paralizzata. Il dramma vero, però, è quello di una comunità che ha smesso di credere nel cambiamento. L’unico progresso che si percepisce è quello della paralisi, l’unico fermento è quello della rassegnazione. Eppure, da qualche parte sotto la superficie, resiste il desiderio di una politica che torni a essere idea, progetto, visione. Ne parleremo. Ogni cosa ha il suo tempo. Oggi Guardia non ha bisogno di un altro annuncio. Ha bisogno di una scelta. Di una “mossa”, finalmente.